Omelia (26-06-2003)
Paolo Curtaz
Commento Matteo 7,21-29

Non bastano le parole e le invocazioni per essere riconosciuti dal Maestro. Anzi: non basta neppure essere discepoli o profeti o guaritori o compiere gesti eclatanti. Gesù è tagliente, oggi, la sua parola spacca in due il nostro cuore, offusca le nostre pseudo-certezze. Il discepolo è colui che ascolta la parola e la vive, la mette in pratica. L'accogliere la parola e renderla concreta – dice Gesù – significa costruire la casa della nostra vita sulla roccia, nessuno può dirsi credente fino a quando la tempesta non investe la sua vita. Ricordo un confratello che, di ritorno da una predicazione, ebbe un tragico incidente stradale in cui perse la madre e la nonna. Corsi al suo capezzale, ancora mezzo intontito dai farmaci, pieno di fratture, il groppo in gola, mi guardò e disse: "Ora so di avere la fede".
Attenti a non farci scudo delle nostre convinzioni, attenti a non diventare giudicanti e, evangelicamente, sentirci migliori di chi abbiamo accanto: nessuno sa se possiede davvero la fede fino a quando non è vagliata. Accogliamo la parola, allora, facciamola diventare pietra salda su cui costruire ogni scelta, senza fanatismi e senza paure. Allora saremo pronti – a Dio piacendo – ad affrontare le difficoltà. Al discepolo la sofferenza non è evitata e la sua vita non è un arido deserto o un comodo rifugio: anche a lui è chiesto dalla vita di affrontare le difficoltà, senza favoritismi, senza sconti. Ma il discepolo che ha accolto la Parola sa che, restando ancorato alla roccia, la costruzione della sua vita non crollerà miseramente.

Rendici non solo ascoltatori, ma appassionati esecutori della tua Parola, Signore, perché le tempeste della vita non facciano crollare la nostra fede. Amen.