Omelia (16-11-2003)
don Fulvio Bertellini
Immagini apocalittiche

Il linguaggio usato da Gesù nel brano di questa domenica è per noi piuttosto inquietante. Sconvolgimenti cosmici, fine del mondo, il Figlio dell'uomo che viene sulle nubi... E nello stesso tempo facciamo fatica a prenderlo sul serio, ci chiediamo se sarà proprio così. Per la nostra mentalità scientifica, postmoderna, sempre più disincantata nei confronti di miti, fantasmi, ideologie, è troppo facile liquidare il tutto come linguaggio apocalittico tipico di quei tempi - più o meno una favola paurosa per intimorire le coscienze. Ma sia la lettura ingenua, sia la presa di posizione disincantata non consentono un ascolto autentico di ciò che il Signore oggi ci vuol comunicare con queste parole.
Il linguaggio apocalittico è il linguaggio della crisi. E' il linguaggio del limite. Tenta di dire ciò che sta al di fuori della comprensione dell'uomo, e che pure è necessario dire: la nostra morte, ovvero la nostra fine, e la fine del mondo, ovvero il suo compimento, la sua destinazione.

La fine del singolo e la fine del mondo

Sulla nostra morte la questione è relativamente chiara. Tutti sappiamo di dover morire. E' una strana certezza, su cui in genere evitiamo di soffermarci, e forse per il quieto vivere è meglio che sia così. La stranezza è che noi non possiamo conoscerla direttamente, eppure sappiamo che ci riguarda. Non sappiamo come, non possiamo sapere cos'è, eppure sappiamo che accadrà, e il senso che diamo alla nostra vita dipende dal senso che diamo alla nostra morte.
Sulla fine del mondo la cosa è meno chiara. Perché il mondo dovrebbe finire? L'analogia con la vita del singolo non sembra calzante. Milioni di uomini nascono e muoiono ogni giorno nel mondo, e il mondo rimane, più o meno sempre tale e quale. Perché dovrebbe avere una fine? Qui è la Parola di Dio che ci pungola alla riflessione. E lo fa appunto con il linguaggio apocalittico. L'unico che può esprimere ciò che sta ai limiti della comprensione. Vedremo che lo scopo non è spaventare, ma alimentare la speranza.

Rinnovamento

Le prime immagini che ci vengono presentante danno un quadro dello sconvolgimento cosmico: apparentemente si tratta di un ritorno al caos, di un annullamento della creazione; in realtà si vuole alludere ad una nuova creazione, ad un rinnovamento profondo. Anche al termine dell'Apocalisse, nella Nuova Gerusalemme, il sole scompare: perché non ce n'è bisogno. Dio stesso la illumina.
La seconda immagine è la venuta del Figlio dell'uomo sulle nubi (evidente citazione del libro del profeta Daniele). Si tratta di un personaggio che ha la stessa potenza e autorità di Dio. Il risultato della sua venuta è la "riunione" degli eletti. E' un tema che ha un'ampia risonanza nell'Antico Testamento, in cui Gerusalemme sperimenta la vergogna della divisione e della dispersione, e vive nell'attesa del ritorno, del ritrovare tutti i figli dispersi. Solo che qui i dispersi non sono solo gli Israeliti, ma non si fa distinzione di razze e di popoli.
L'ultima immagine è quella del fico, la pianta che per gli Israeliti segnava il passaggio di stagione, l'estate ormai imminente. Gesù ci invita a imparare dal fico, a cogliere i segnali della storia nel presente: è per la nostra generazione che è scritto questo Vangelo.

Riscoprire la speranza

Al di là del fondo pauroso che noi stessi illusoriamente ci creiamo, la Parola di questa domenica appare un invito alla speranza. Una nuova creazione si sta preparando. E' Cristo stesso che viene per riunirci. E non viene alla cieca, ma ci mostra i segni della sua venuta, se sappiamo riconoscerli. E' un quadro incoraggiante, che non deve spaventare. Sorretti da questa speranza i primi cristiani affrontarono persecuzioni, fatiche, percosse, torture... mantenendo ferma la loro speranza, la loro certezza che è Dio il signore della storia. Solo per noi questo messaggio rischia di diventare pauroso. Forse perché stiamo troppo bene, troppo rilassati, abituati a scelte di comodo? Forse perché abbiamo perso lo slancio, l'entusiasmo della fede?



Flash sulla I lettura

Il capitolo 12 è l'ultimo della parte apocalittica del libro di Daniele. Dopo una ponderosa rivisitazione della storia a lui contemporanea (capitolo 11), l'autore passa ad esprimere le sue personali speranze di salvezza, in un linguaggio enigmatico e complesso. Il libro di Daniele fu scritto in tempo di crisi, quando la storia del popolo appariva incomprensibile alla luce dell'Alleanza, e sembrava di assistere al trionfo dei malvagi e di quelli che erano stati infedeli a Dio.
"Sorgerà Michele, il gran principe...": il termine ebraico può indicare anche il "generale": siamo in un contesto di lotta, di contrasto, e le sorti del combattimento sembrano volgere a favore del nemico. Per questo si auspica un intervento diretto dal mondo divino, tramite un suo intermediario.
"Vi sarà un tempo di angoscia...": probabilmente l'autore si riferisce all'epoca di Antioco Epifane, considerato re empio per eccellenza (il suo soprannome significava "Dio manifestato") e persecutore dei giudei fedeli alla Legge.
"In quel tempo sarà salvato il tuo popolo...": il tempo della persecuzione diviene paradossalmente tempo di salvezza. Emerge un dato che troverà ampi sviluppi nel Nuovo Testamento.
"...chiunque si troverà scritto nel libro": molti avevano perso la vita nella persecuzione e nelle lotte susseguenti. Il destino dei martiri diviene un problema teologico di grande importanza: sapere cosa avviene a chi è stato fedele a Dio, e per questo ha trovato la morte. Il libro è immagine della conservazione della memoria: gli amici di Dio non vengono dimenticati.
"Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno": all'immagine del libro, segue l'immagine della risurrezione, ancora intesa in senso parziale, come riguardante il solo popolo di Israele. Solo la risurrezione permette di distinguere chi ha conservato l'Alleanza e chi ha ceduto al compromesso.
"coloro che avranno indotto molti alla giustizia...": particolarmente raccomandata e lodata è la vita di chi insegna, di chi coinvolge molti nel seguire la volontà di Dio ("giustizia"). Non ci può essere una salvezza intesa come realizzazione egoistica. Il libro di Daniele ragiona in termini collettivi, tipici dell'Antico Testamento: si tratta della salvezza del popolo, come comunità.

Flash sulla II lettura

"Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto...": prosegue la serrata disamina del culto del Tempio, di cui l'autore degli Ebrei rileva la ripetitività e l'insufficienza.
"perché essi non possono mai eliminare i peccati": i sacrifici hanno un valore figurativo, ma non incidono sulla realtà profonda delle persone.
"Cristo al contrario, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati...": il sacrificio di Cristo invece è realmente efficace, in quanto compiuto una volta per tutte.
"aspettando ormai soltanto che i suoi nemici vengano posti sotto i suoi piedi...": l'attesa che rimane è l'attesa della vittoria finale, la definitiva sottomissione a Cristo di ogni realtà. In questa attesa si colloca il culto cristiano, non ripetitivo e figurato come il culto antico, ma reale e viva invocazione della definitiva venuta del Cristo.