Omelia (23-11-2003) |
don Elio Dotto |
Re nonostante tutto Narra un racconto ebraico che un giorno si presentarono ad un vecchio rabbino alcuni giovani discepoli trafelati: «Maestro – dissero – lungo la strada alcuni ci hanno detto che il regno del Messia è venuto». Il vecchio rabbino non disse una parola, aprì la finestra, guardò sulla strada, e poi chiuse la finestra, scuotendo la testa, con rassegnazione. Come a dire: se il regno del Messia fosse venuto, qualcosa avrebbe dovuto cambiare; tutto invece è come prima: ancora il peccato, l'ingiustizia, la sofferenza, le molte incredulità. Se ci pensiamo bene, molto simile a questa rassegnazione del rabbino può essere oggi il nostro atteggiamento, mentre celebriamo la festa di Gesù Cristo re dell'universo. È proprio vero – ci chiediamo – che il regno di Gesù si è esteso a tutto l'universo? È proprio vero che tutte le cose sono state rinnovate nel Cristo Re, come diciamo nella preghiera iniziale della Messa di questa festa? È proprio vero che la nostra vita è cambiata e ha ritrovato la bellezza e lo splendore delle origini? O non dobbiamo forse ammettere che tutto è rimasto come prima, e continua a rimanere come prima, nonostante le nostre buone intenzioni? Così almeno dobbiamo constatare soprattutto in questi giorni, davanti alle stragi di Nassiriya e di Istambul, ma anche davanti alle troppe ingiustizie e miserie che ancora segnano la nostra vita... Queste considerazioni non sono certo inedite per la storia cristiana. Già i discepoli di Gesù le fecero, verso la fine della sua missione. Essi avevano partecipato con gioia all'ingresso trionfale del Maestro, quando una folla esultante aveva cantato: «Osanna al Figlio di Davide, Osanna nel più alto dei cieli» (Mt 21,9). Quella gioia però era durata poco, perché quasi subito i capi del popolo avevano deciso di catturare quello scomodo Maestro. La pretesa regale di Gesù divenne in tal modo un sogno impossibile: così pensavano almeno i discepoli, mentre il Signore veniva condotto al processo di Pilato. Ma proprio davanti a Pilato – come leggiamo nel Vangelo di domenica (Gv 18,33-37) – Gesù riaffermò la sua regalità: «io sono re». Certo, egli spiegò subito al procuratore romano di essere un re particolare, il cui regno «non è di questo mondo». E tuttavia non rinnegò la sua pretesa: «io sono re; per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo». Naturalmente Pilato non diede troppo peso a tali parole, desideroso com'era di chiudere al più presto quella fastidiosa causa. Eppure – almeno per un attimo – rimase colpito dalla dignità di quell'imputato, che affermava di «rendere testimonianza alla verità». Pilato rimase colpito: perché mai – prima di allora – aveva visto un Signore dignitoso come Gesù. Appunto una simile dignità sembrò in quel tempo più forte di ogni violenza. E proprio attraverso un'analoga dignità può affacciarsi nella nostra vita quel regno nuovo che tutti attendiamo. Certo, nella nostra esistenza ci sono ancora il peccato, l'ingiustizia, la sofferenza, le molte incredulità: al punto che ci verrebbe da scuotere la testa, come fece quel vecchio rabbino rassegnato... Eppure può essere diverso e nuovo il nostro modo di vedere questi mali, può essere diverso e nuovo il nostro cuore che li incontra. Il nostro cuore può essere come il cuore di Gesù: che è stato il cuore dignitoso di un Re perché ha testimoniato fino alla fine che la compassione e la tenerezza del Padre sono più forti di ogni violenza. |