Omelia (02-11-2011)
padre Gian Franco Scarpitta
Vivere da morti la vita o vivere lla vita eterna?

La solennità celebrata ieri era incentrata sulla vita eterna, della quale godono i giusti che hanno perseverato nel bene fino alla fine e alla quale siamo anche noi orientati. Oggi invece la liturgia ci invita ad aspirare ancora alla vita eterna, vivendo nel frattempo la vita presente. Di vita, infatti trattano le letture odierne, non della morte.
Già da ieri mattina i cimiteri delle nostre città sono un pullulare continuo di gente che sosta davanti ai loculi che ospitano i resti mortali dei nostri cari; vi si sosta in preghiera e in raccoglimento, vi si depongono immancabilmente fiori e omaggi, di fronte agli epitaffi delle vite stroncate assai prematuramente ci si abbandona al pianto e allo sconforto e intanto si respira nell'aria come l'atmosfera di una giornata nuova, del tutto differente dalle altre.
Anche nelle chiese i nostri defunti vengono ricordati attraverso orazioni, preghiere e Messe di suffragio, celebrate (almeno si spera) non con l'intenzione di accattivarci la simpatia e l'indulgenza della morte, ma per ragguagliare la morte che per lei non vi è indulgenza alcuna.
Di fronte al trapasso l'uomo ha sempre assunto atteggiamenti differenti e in ogni epoca si sono date le più svariate interpretazioni al fenomeno decesso. C'è chi lo accoglie con rassegnazione e risolutezza, chi vi si arrende conscio dell'inutilità di ogni resistenza e chi lo attende come elemento connaturale al nostro stesso vivere di fronte al quale non va esternata meraviglia o stupore alcuno. Mio nonno, di fronte alla possibilità anche lontana di morire, soleva ripetere continuamente: si nasce, si cresce e si muore. Di fronte allo sgomento angosciante del trapasso c'è stato però chi non ha voluto rassegnarsi, cercando reazioni ora di mera consolazione ora di soddisfazione psicologica, ora nella speculazione astratta filosofica. Per fare alcuni esempi, Pascal affermava: ""Gli uomini, non avendo nessun rimedio contro la morte, la miseria e l'ignoranza, hanno stabilito, per essere felici, di non pensarci mai." Epicuro osservava che "La morte quindi è niente, per i vivi come per i morti: perché per i vivi essa non c'è, mentre per quanto riguarda i morti sono loro a non esserci." Qualcun altro, sospirava: ""Al momento della morte spero di essere sorpreso"(I. Illich). Fortunatamente c'è anche chi ha interpretato la positività del morire umano: "Chi vive intensamente non ha paura della morte" o ci ha ragguagliati sulla viltà della morte procacciata ("Se desideri morire e stai vivendo, pensa a chi desidera vivere e sta morendo"), ma nessun'altra soluzione è più consolante per noi se non quella della fede, cioè dell'abbandono fiducioso e ottimista nei confronti di Colui che ha mostrato di avere ragione della morte superando perfino il buio e le pareti spesse del sepolcro: "Chiunque vive e crede in me, anche se muore vivrà."
Per chi è abituato a considerare solamente lo sfacelo del corpo fisico e la decomposizione delle membra nei sepolcri, la morte è infatti un evento inevitabilmente fatale e irrimediabile; per chi invece vi si avvicina forte della fiducia e della speranza in Colui che è risorto una volta per sempre, essa è un avversario agonizzante e privo di potere, che ha perso le proprie battaglie ancor prima di impugnare le armi. Proprio come dice Paolo: "Dov'è o morte, la tua vittoria? Dov'è o morte il tuo pungiglione?" Nella resurrezione di Cristo la morte è stata sconfitta definitivamente e anche il morire umano assume fattezze di vita perché in esso si apre la prospettiva della vita senza fine, quella per la quale siamo destinati a vedere Dio faccia a faccia, appropriandoci dei favori della sua gloria. Riporre la propria fiducia nel Dio vivente che ha creato tutto per l'esistenza è sinonimo di certezza e di consolazione esaltante che la vita ha definitivamente trionfato sulla morte e che siamo tutti destinati a vivere per sempre.
Sempre Paolo aggiunge tuttavia che potremmo correre il rischio di vivere da morti la vita oppure (il che è lo stesso) di volerci illudere di essere persone viventi e non cadaveri ambulanti: "Pungiglione della morte è il peccato". Nella lontananza voluta e protratta da Dio non ci si procura altro, in effetti, se non la vita apparente e per ciò stesso la morte certa e ineluttabile: il peccato è sinonimo di morte quotidiana e di essa facciamo la triste esperienza nella quotidianità cruda e acerba della realtà del male multiforme che ci danneggia abbindolandoci con le sue false promesse. Anziché temere la morte, va evitato quindi di vivere da morti la vita.

Certo, non sempre è facile accontentarsi di argomentazioni teologiche e spirituali nelle circostanze concrete del trapasso e non si può smentire che determinate esperienze difficilmente ammettono commenti avulsi e cattedratici.
Mi accorgo non di rado, durante la celebrazione delle esequie o nella commemorazione speciale dei defunti, che certi concetti proferiti nell'omelia non sono sufficienti a colmare il vuoto e lo sconforto suscitato dalla scomparsa (soprattutto se repentina) di un caro congiunto: si vorrebbero ottenere altre forme di consolazione, si è presi dall'istinto della reazione e della rivalsa non si sa contro chi e, piuttosto che parole, si esigerebbero "prove certe" o almeno argomenti immediati e "concreti" sulla realtà della vita eterna. Oppure si vorrebbe che chi sta proferendo il discorso tacesse e si astenesse da ogni commento. Persone stremate dal dolore e dallo sconforto vorrebbero ben altro che delle lezioni dettate dal pulpito. Soprattutto poi quando si tratti della scomparsa prematura di giovani, di fanciulli o di persone suicide. Confesso che in certi casi di predicazione omiletica ci si trova in situazioni imbarazzanti, non sapendo con certezza quali siano le parole appropriate da proferire per incutere coraggio o per invitare alla speranza. Il che è anche comprensibile e non deve farci trascurare la realtà profonda del dolore umano, comunque persistente per la quale va adottata in ogni caso molta comprensione da parte di noi pastori.
E tuttavia resta fermo Colui che ha vinto la morte ha saputo prima affrontarla con prontezza e determinazione con lo spessore della paura, della solitudine e dell'angoscia, mentre una Madre lo assisteva addolorata mentre egli sbiancava sulla croce. Il Risorto non è semplicemente Risorto, ma è passato dalla morte alla vita, poiché non era possibile che la morte lo tenesse in suo potere (At 2, 24) e questo spiega come del dolore e della morte abbia egli saputo fare esperienza in prima persona e nella persona di quanti lo amavano. Per donarci se stesso e la sua consolazione di essere per noi vita eterna.