Omelia (01-11-2011) |
don Maurizio Prandi |
Commento su Matteo 5,1-12 Abbiamo vissuto, nelle nostre comunità, l'ascolto della liturgia della parola di questo giorno come la naturale continuazione di quella domenicale, il cui messaggio abbiamo riassunto così: assomigliare a Gesù, essere specchio della sua vita. In questa direzione ci è sembrato andassero le tre letture di oggi. Un po' per l'affermazione circa il nostro destino che l'apostolo Giovanni fa nella sua lettera saremo simili a lui, un po' per la certezza, che sempre lui ci dà, che siamo figli di Dio (e lo ripete per due volte in poche righe), un po' per quella moltitudine immensa della quale parla il libro dell'Apocalisse, moltitudine salvata da Gesù con il dono della sua vita. Moltitudine somigliante a Gesù, ci siamo detti, nella quale possiamo riconoscerci anche noi e nella quale certamente si riconosce il figlio di Dio perché ( e questo si capisce solo dalla continuazione del capitolo sette il cui ascolto in questa festa si interrompe al versetto 14: Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro. Non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole, né arsura di sorta, perché l'Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi") è una moltitudine di poveri, di ultimi, di gente che ha avuto fame e sete, piegati, spossati dal sole e dal vento rovente del deserto, che ha pianto per la durezza, l'asprezza della vita ed è arrivata a capire che vivere è servire. In controluce leggiamo anche alcune delle beatitudini del vangelo: poveri, affamati e assetati, quelli che piangono, i perseguitati arrivati ad essere martiri. Soltanto domenica ci siamo detti che per Dio non contano i titoli di onore (tanto amati invece da alcune categorie di persone...), per Dio contano la capacità di ascoltare e la grandezza del cuore (prima lettura e vangelo di domenica scorsa). Sentite cosa scrive mons. Paglia: una moltitudine immensa di donne e uomini comuni, una moltitudine composta di discepoli di ogni tempo che hanno cercato di ascoltare il vangelo e formata anche da persone non credenti ma di buona volontà, che si sono impegnate a vivere non solo per se stesse. Che bello! Che bella immagine di chiesa... e continua si tratta di un popolo di deboli, di malati, di bisognosi, di gente che sta davanti a Dio non in piedi ma in ginocchio, non a fronte alta ma con il capo chino; non con atteggiamenti di rivendicazione ma con le mani stese per mendicare aiuto. Non è difficile, io credo, riconoscere in queste parole le nostre assemblee (e non solo qui a Cuba eh?) una moltitudine di poveri che abbiamo la grazia e la gioia di accompagnare una moltitudine nella quale (e qui non dovremmo mai finire di ringraziare Dio che la dona questa moltitudine) possiamo ogni giorno specchiarci ed immergerci. E' bello perdersi con lo sguardo in questa gente che ti ritrovi davanti: Lalà che un soffio di vento la può portare via tanto è magra, Edey la cui sposa con il bambino sono distanti 10.000 km per lottare contro la malattia, Monghillo, down di cinquant'anni che ogni volta che ti vede ti indica scarpe e pantaloni per dirti che avrebbe bisogno di un ricambio, Osvaldo, il cui figlio adolescente è morto e ancora non si capisce il perché di quel malore, Danay, sola e con quattro bambini da tirar su... mi sembra sempre più importante allora questa idea che le letture di domenica e quelle di oggi vogliono trasmetterci: la normalità. In un mondo in cui tutto, per avere valore e importanza deve essere speciale, straordinario, super, scopriamo che il cammino della santità comincia nel quotidiano, nel feriale, nel concreto. Sbaglia chi pensa alla santità come qualcosa di intimistico che deve piano piano staccarci da questo mondo; credo che santo sia chi è capace di abitare il mondo, trasformandolo (là dove ce n'è bisogno), da dentro. Mi hanno molto addolorato le parole di un cardinale che rivolgendosi ai preti a Roma ha detto in una omelia: il sacerdote è necessariamente straniero in un mondo che non riconosce Dio e che è immerso in una cultura della morte e del piacere, dove c'è posto soltanto per il potere e per il denaro. Ma quelle del card. Martini mi hanno allargato il cuore: Mettersi in mezzo al popolo, alla vita degli uomini, imparando molto ad ascoltarli. Stranieri, perché stranieri? Santo significa separato, ma la santità che Gesù ci insegna è l'incarnazione. Più immerso di così... Mi è piaciuto tantissimo l'accostamento che il papa fa nel suo libro Gesù di Nazareth nel capitolo dedicato al discorso della montagna... scrive che le parole di Gesù sono il compimento dell'esperienza del Sinai vissuta dal profeta Elia il quale aveva sentito il passaggio di Dio non nel vento impetuoso, né nel terremoto, né nel fuoco, ma in un dolce e leggero soffio ("un silenzio mormorante" traducono in molti). La potenza di Dio si manifesta nella sua mitezza, la sua grandezza nella sua semplicità e vicinanza... ciò che prima si era espresso in un vento impetuoso, terremoto e fuoco, prende ora la forma della croce, del Dio sofferente che ci chiama ad entrare in questo fuoco misterioso, il fuoco dell'amore crocifisso: Beati voi quando vi perseguiteranno, vi insulteranno..." Sono le sorprese che ci fa la Sacra Scrittura queste che ci chiedono di capovolgere la nostra mentalità ancora una volta, l'idea che abbiamo di Dio: Dio non nelle potenza della natura ma in un silenzio mormorante e poi beati non i ricchi, non i fortunati, non gli spensierati ma beati i poveri, gli affamati, gli addolorati, i perseguitati... |