Omelia (20-07-2003) |
mons. Vincenzo Paglia |
Commento Marco 6,30-34 Il brano evangelico di questa sedicesima domenica del tempo ordinario si apre con il ritorno dei discepoli dalla prima missione che Gesù aveva loro affidato. Li aveva inviati, a due a due, per le città e i villaggi della Galilea, dando loro il potere della Parola (una parola che toccava il cuore) e il potere di consolare, di guarire, di aiutare chiunque avesse bisogno. L'evangelista, accennando appena al loro ritorno, fa però arguire la soddisfazione dei discepoli e dello stesso Gesù. Scrive Marco: "Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato". E possiamo immaginare lo sguardo affettuoso e compiaciuto di Gesù mentre essi raccontavano quello che avevano operato. Erano felici. Forse non mancava la stanchezza, quella che accompagna sempre ogni vero "missionario" che dimentica se stesso per servire il Vangelo, ma gustavano la stessa gioia del Maestro quando, come scrive Luca dopo la missione dei settantadue, "vedeva satana cadere dal cielo come la folgore" (Lc 10, 18). Insomma, molti li avevano ascoltati e non pochi erano stati guariti. Mentre raccontavano queste cose Gesù disse loro: "Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po'". Li aveva visti certamente stanchi, ma anche felici e desiderosi di raccontare tutto, magari l'uno si sovrapponeva all'altro nel narrare. Gesù li raccoglie accanto a sé, non per distrarli o per un vago riposo, ma perché stessero con lui, perché potessero comprendere ancor meglio i suoi insegnamenti e magari ricevere anche correzioni. Dice l'apostolo Paolo: "Voi che un tempo eravate lontani siete ora diventati vicini"; vicini innanzitutto a Gesù poter "stare in disparte, in un luogo solitario e riposarsi un poco". E persino ovvio applicare queste parole alla liturgia eucaristica della domenica. Il Papa, con l'ultima enciclica sull'eucaristia, ha richiamato la centralità di questo mistero per la vita della Chiesa e di ogni cristiano. Ascoltando l'invito di Gesù fatto ai discepoli viene in mente che la Santa liturgia della domenica è davvero un riposo. Non so se così è vissuta nelle nostre parrocchie. Ma se così non fosse - e purtroppo non di rado accade - è come perdere un tesoro. Se si dovesse trovare un'immagine evangelica della messa domenicale, direi proprio che è questa: Gesù che conduce in disparte i suoi, perché riposino con lui. E' un momento profondo di incontro con il Signore, nel quale ciascuno è coinvolto interamente: con il cuore, se ci sentiamo toccare dal suo amore, con la mente, se il Vangelo diviene il pane dello spirito, ma anche con il corpo, con la voce, con lo sguardo, con l'affetto vicendevole, è un'esperienza unica che davvero dà senso alla settimana, anzi alla vita. In Oriente, i santi padri affermano che con la liturgia eucaristica della domenica il cielo scende sulla terra; con essa inizia la realizzazione del regno di Dio, il vero riposo, la vera pace. "Voi che eravate lontani, ora siete diventati vicini", vicini al Signore e vicini con i fratelli e le sorelle. Il riposo della messa della domenica non ci fa evadere dalla vita e neppure fa dimenticare le proprie vicende, belle o tristi non importa. L'incontro domenicale con il Signore non ci separa dal tempo ordinario della vita, semmai fa come da cerniera tra la settimana passata e quella che sta per iniziare; è come una luce che illumina il tempo di ieri, per comprenderlo, e quello di domani, per tracciarne il percorso. Ed è, appunto, quanto accade nel racconto evangelico. Gesù e i discepoli salgono sulla barca per passare all'altra riva. Il momento della traversata sulla barca, tra una riva e l'altra, possiamo paragonarlo alla messa della domenica, la quale appunto ci lega alle due sponde del mare, sempre affollate di gente bisognosa. I discepoli hanno lasciato la folla, ma non appena sbarcano all'altra riva ne trovano un'altra ad attenderli. Scrive l'evangelista che Gesù, scendendo dalla barca, "si commosse" al vedere quella gente che lo aspettava perché erano come pecore senza pastore. Vorrei dire che è questo il sentimento che la domenica deve risvegliare in ogni comunità ecclesiale, in ogni credente. Ciascuno viene esortato, nutrito, rifocillato, perdonato e corretto dal Signore, per poter iniziare la nuova settimana con i sentimenti del Vangelo, con un senso della vita più vicino al Signore con un cuore più tenero e sensibile, con un animo meno ripiegato su se stesso con un'energia che rende più forti le mani per aiutare e più saldi i piedi per andare incontro ai fratelli. Tutto questo vuol dire avere compassione. Non si tratta infatti di commiserazione. La compassione evangelica, quella di Dio, è un sentimento ricco, forte e tenero, talora anche sdegnato per le situazioni tristi e di violenza. La compassione fa muovere, non fa rassegnare; non permette chiusura e distrazione. Nella compassione evangelica c'è anche l'inquietudine di Dio contro i cattivi pastori, sino a prendere lui stesso la guida delle pecore. L'ultimo dei profeti Giovanni Battista, era stato ucciso da non molto témpo; e non c'era più nessun profeta in Israele. E la Parola di Dio era davvero rara. Sì, il tempio continuava a raccogliere gente e le sinagoghe continuavano ad essere affollate. Forse molti dicevano che la religione aveva comunque vinto. Eppure la gente, i poveri e i deboli soprattutto, non sapevano su chi confidare, su chi riporre la loro speranza, verso quale porta andare a bussare per avere una risposta, un aiuto, un conforto. Nelle ultime parole del Vangelo di questa domenica riecheggia tutta la tradizione vetero-testamentaria del tradimento dei responsabili. Il profeta Geremia lo grida a chiare lettere ai capi di Israele: "Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio popolo". E aggiunge in modo ancor più diretto: "Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati". L'accusa e grave. E certamente riguarda anzitutto i "pastori", ma non va dimenticato che in certo modo ogni credente è pastore del fratello. Tutti perciò debbono esaminarsi su questo punto. Tutti debbono chiedersi se sentono la responsabilita degli altri credenti, se sentono la comunità come parte delle proprie preoccupazioni. Ogni credente, mentre è certamente discepolo, è anche responsabile della vita degli altri. Il Signore ce ne dà l'esempio. Il profeta afferma che il Signore stesso si prenderà cura del suo popolo: "Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho lasciate scacciare e le farò tornare ai loro pascoli". Il segreto da cui nasce tale cura è iscritto tutto nella compassione del Signore. E questa compassione che portò Gesù a inviare i Dodici ad annunciare il Vangelo e a servire i poveri. Tale insopprimibile amore, tale irresistibile passione, continua a spingerlo, appena sceso dalla barca, a riprendere immediatamente il suo "lavoro" apostolico. Ed è quello che il Maestro continua a chiedere ai discepoli di ogni tempo. |