Omelia (16-02-2003) |
mons. Vincenzo Paglia |
Lo voglio, guarisci Il vangelo di Marco continua ad accompagnarci di domenica in domenica per renderci partecipi della vita stessa di Gesù. I Vangeli ci mostrano il clima nuovo che nasceva al passaggio di Gesù tra gli uomini. Era visibile una straordinaria corrente di misericordia che percorreva le strade di quella lontana periferia dell'Impero romano. Avvenivano cose che mai prima si erano viste. Il brano evangelico di questa domenica si apre con una notazione asciutta e assolutamente singolare per quel tempo: "Venne a Gesù un lebbroso". Era davvero strano che i lebbrosi osassero avvicinarsi a qualcuno, visto che avevano l'obbligo di stare ben lontani dalla gente. Il libro del Levitico era categorico: "Il lebbroso colpito dalla lebbra porterà vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: Immondo! Immondo! Sarà immondo finché avrà la piaga; e immondo se ne starà solo, abiterà fuori dell'accampamento" (13, 46). L'esclusione dalla convivenza con gli altri rendeva questa malattia ancor più terribile di quel che già appariva. Ecco perché appare strano che un lebbroso osi avvicinarsi a Gesù superando un'abissale distanza garantita dalla legge. Ma, da chi altro poteva andare? Tutti, protetti dalle disposizioni legali oltre che dalla paura del contagio, si tenevano ben lontani dai malati di lebbra. L'unico che non si comportava così era Gesù. I lebbrosi l'avevano capito e andavano da lui. Quanti malati di "lebbra" ci sono anche oggi, vicino o lontano da noi! E non parlo tanto dei colpiti dalla lebbra vera e propria peraltro curabile, quanto di coloro che vedono la propria vita segnata irrimediabilmente dalla malattia senza neppure la speranza di poter sognare una vita migliore per il tempo che gli resta! E ancora oggi siamo in molti, in troppi, a fuggire da loro per paura di essere contagiati, oppure, come qualcuno dice per non essere rattristati alla loro vista (e loro che ci sono dentro fino al collo, cosa dovrebbero dire?). Quei lebbrosi, contrariamente a quel che normalmente accadeva, quando venivano a sapere che stava per passare Gesù, superavano barriere di paura e di diffidenza e accorrevano da lui. Il giovane profeta di Nazareth creava un clima nuovo attorno a sé, una atmosfera piena di compassione e di misericordia che attraeva malati, peccatori, poveri, deboli, emarginati. Quel lebbroso, finalmente e chissà con quanta fatica, giunse accanto a Gesù e gli si gettò ai piedi. Non usò molte parole, non si mise a spiegare la sua malattia, disse semplicemente ma con fede: "Se tu vuoi, puoi guarirmi!". Il lebbroso non dubita che Gesù possa sanarlo; non sa se vuol farlo. Del resto cosa poteva sapere un povero lebbroso della volontà di quel giovane profeta? Semmai, la sua sfiducia negli altri era confermata dalla diffidenza che tutti avevano verso di lui, lebbroso e immondo. Una cosa è certa in questa pagina evangelica: la disperazione di quel lebbroso, davanti a quel profeta buono, si trasforma in fede. E Gesù, il compassionevole, non poteva non ascoltarlo: non ebbe paura del contagio, stese la mano e lo toccò. E gli comunicò l'energia della vita. Quel lebbroso si trovò ravvivato come una pianta appassita che subito rifiorisce. La scena evangelica spinge tutti noi ad incontrare e ascoltare, a toccare e sentire il grande bisogno di salvezza che hanno i milioni di "lebbrosi" che ancora oggi vivono ai margini della vita; a volte sono popoli interi a giacere in questa incredibile situazione. E' scandaloso accettare di convivere con la morte, con le stragi, con la paura del contatto e del contagio con chi è malato, povero e sconfitto. La compassione di Gesù non è solo un fatto puntuale, relativo ad un caso o un altro, magari a quello che suscita più facilmente emozioni anche perché ben propagandato. Gesù, con la sua risposta, ci mostra qual è la sua volontà sulla lebbra e sul male, qualunque esso sia: "Lo voglio, guarisci!". Sì, la volontà di Dio è chiarissima: lottare contro ogni genere di male. Siamo davvero lontani da quella convinzione piuttosto diffusa che attribuisce a Dio la decisione di distribuire il male agli uomini a secondo del loro peccato. Nulla è più estraneo dal vangelo. Eppure è una convinzione fortemente radicata anche tra i cristiani. Quel che invece non comprendiamo è quel che Gesù ordina al lebbroso dopo la guarigione: "Guarda di non dire niente a nessuno...". E' un comando che appare strano, e forse lo è davvero. Certo è totalmente estraneo se non contrario, alle nostre abitudini e alla nostra cultura "televisiva". Il vangelo sembra mostrarci un silenzio bello, ricco, espressivo che Gesù vuole conservare. Si potrebbe interpretare anche in questa linea il cosiddetto "segreto messianico", tanto caro all'evangelista Marco. Una sottolineatura tuttavia, va fatta: Gesù non cerca la sua gloria o il rafforzamento della sua fama. Questo desiderio di silenzio è legato al delicato segreto di un'amicizia che si instaura tra il Signore e quell'uomo, tra il Signore e chiunque si affida a lui. Il miracolo - così vorrei interpretare il silenzio imposto da Gesù - prima che segno apologetico della sua potenza, che pure è necessario notare, è soprattutto una risposta amica affettuosa, compassionevole, verso chi è malato ed escluso. E' come dire che l'amore di Dio per me, per te, per ogni uomo, viene prima di ogni altra cosa. Forse proprio perché toccato da questo amore assolutamente unico e inimmaginabile, fu impossibile a quell'uomo tacere. E allora dobbiamo augurarci che sia impossibile anche per noi il tacere. Quel lebbroso non obbedì e divulgò il fatto al punto che non poteva più entrare nelle città a motivo del gran numero di persone che lo cercavano. Gesù, che non desiderava il piacere degli uomini ma quello del Padre suo, si ritirava in luoghi diversi. La gente tuttavia non lo perdeva di vista e continuava ad andargli dietro. Oggi, forse ancor più di ieri, abbiamo bisogno di un "uomo" che cammini in mezzo a noi come Gesù sapeva fare. Ma non è questa la vocazione stessa della Chiesa e di ogni credente anche all'inizio di questo nuovo secolo? |