Omelia (06-04-2003) |
mons. Vincenzo Paglia |
Commento Giovanni 12,20-33 Quando Filippo e Andrea riferiscono a Gesù la richiesta dei due greci, egli risponde che è giunta la sua "ora". Quell'ora che non era ancora "arrivata" a Cana, che "stava venendo" nell'incontro con la samaritana al pozzo di Giacobbe, quella "ora" per cui era venuto sulla terra, ora stava per giungere nella sua pienezza. E' un'ora del tutto diversa da quella che aspettiamo noi, quella del trionfo, della riscossa, dell'affermazione di se stessi, della vittoria sugli altri. Per Gesù è l'ora della sua passione e morte. Non c'era mai stata per lui l'ora dell'interesse per sé, sebbene più volte avesse subito la tentazione di fuggire il pericolo della cattura che vedeva avvicinarsi sempre più, oppure di allontanarsi da Gerusalemme come gli stessi discepoli più volte lo avevano esortato a fare. L'ora ormai giunta non era certo un momento facile per Gesù. Era anzi fortemente drammatico, tanto da fargli esclamare: "L'anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest'ora? Ma per questo sono giunto a quest'ora! Padre glorifica il tuo nome". E decise di restare, anzi di entrare a Gerusalemme anche se questo gli sarebbe costato la morte. Ne era ben consapevole. Più volte l'aveva detto, scandalizzando anche i più vicini a lui. Nel tempio lo ripete a tutti i presenti, sotto forma di parabola: "Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto". Per lui non era bastato venire sulla terra, e già questo mostrava l'incredibile amore per gli uomini; era necessario donare la vita sino alla fine, sino all'ultimo istante, sino all'ultima goccia. Non che Gesù cercasse la morte. Al contrario, non voleva morire. Nella Lettera agli Ebrei abbiamo ascoltato: "Cristo, nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà". Tuttavia - ed è qui il grande mistero della Croce - l'obbedienza al Vangelo e l'amore per gli uomini erano per Gesù più preziosi della sua stessa vita. Non era venuto sulla terra per "rimanere solo", bensì per portare "molto frutto". E l'unica via per portare frutto, ossia per raccogliere i dispersi Gesù la indica nel brano evangelico: "Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna". Sono parole che sembrano incomprensibili, e per certi versi lo sono; esse suonano totalmente estranee al comune sentire, da risultare indecifrabili dal punto di vista semantico. Tutti amiamo conservare la vita, custodirla, preservarla, risparmiarla dalla fatica; nessuno è portato ad "odiarla", come invece sembra suggerire il testo evangelico. Basti pensare alle cure che abbiamo per il nostro corpo e non parlo di quella ordinaria attenzione per la salute. Mi riferisco a quelle sofisticate attenzioni che riserviamo anche solo all'estetica e all'apparire, e per le quali non badiamo a spese. Il Vangelo parla un altro linguaggio; potrebbe apparire duro, eppure a guardarci bene dentro è profondamente realista. Il senso dei due termini (odiare e amare) è da intendersi sulla scia della stessa vita di Gesù, del suo modo di comportarsi e di voler bene sul suo modo di impegnarsi, di pensare e di preoccuparsi. Insomma, Gesù ha vissuto tutta la sua vita amando gli uomini più di se stesso. La morte in croce rappresenta l'ora in cui questo amore si manifesta nella sua pienezza. Sì, la croce è l'ora della salvezza; potremmo dire che è il momento culminante dell'intera storia umana, il punto più alto di amore che l'uomo ha potuto e possa esprimere. E forse è proprio questa l'ora di cui parla la profezia di Geremia quando si prevedono "giorni nei quali il Signore concluderà un'alleanza nuova con la casa d'Israele e con la casa di Giacobbe" (Ger 31, 31). Sono poche parole, ma rappresentano uno dei vertici spirituali del Vecchio Testamento: l'antico patto del Sinai è superato dalla "nuova allenaza" che il Signore stabilisce con il suo popolo. Gesù stesso rievocherà durante l'ultima cena questa profezia di Geremia, quando definirà la coppa pasquale "il calice della nuova alleanza". Tale nuova alleanza non sarà più scritta su tavole di pietra ma nel cuore stesso degli uomini. E il primo cuore su cui essa è scritta è quello stesso di Gesù: sulla croce squarciato dalla lancia, quel cuore effonde tutto il suo sangue sino all'ultima goccia. Come restare distanti e freddi di fronte a tale amore? Come dimenticare quest'uomo appeso sulla croce e passare oltre? Come resistere ad una passione così alta che ha portato un uomo a dare tutta la sua vita sino alla morte in croce? Ecco perché Gesù può dire: "Quando sarò alzato da terra attrarrò tutti a me!" (Gv 12, 32). E la grazia che chiediamo in questi giorni. La chiediamo per ciascuno di noi personalmente e per tutte le nostre comunità cristiane perché si lascino conformare il cuore da quell'amore. E la grazia che chiediamo anche per il mondo perché gli uomini, guardando quel volto crocifisso, si commuovano e possano scoprire che l'amore è più forte di ogni presunta forza umana, è più forte di ogni potere violento, è più forte di ogni egocentrismo nazionale o di gruppo. Da quella croce, da quel cuore squarciato, sgorga la fonte della salvezza per il mondo intero. |