Omelia (25-12-2011) |
Ileana Mortari - rito romano |
Il Verbo si fece carne La Messa natalizia "del giorno" nel rito romano e quella "della notte" in rito ambrosiano hanno come lettura evangelica un brano tratto dallo stupendo prologo di Giovanni, certamente quanto mai indicato per meditare il mistero dell'Incarnazione. Come si vede, fin dall'inizio Giovanni si stacca nettamente dagli altri evangelisti: il suo interesse non si limita alla vita pubblica di Gesù (cfr. Marco), né vuole indagare circa la sua infanzia (cfr. Matteo e Luca), ma, con una grandiosa "ouverture", Giovanni ci porta nel mistero stesso di Dio. Si pensi che, fin dai tempi più antichi della Chiesa, il Prologo giovanneo fu considerato la più sacra delle sacre parole, e quindi fu circondato da una particolare venerazione, come se fosse un "sacramento", una reliquia. Veniva usato come formula, ossia come Parola efficace, nel rito di benedizione ai malati e ai bambini e, fino alla riforma liturgica del Concilio, veniva recitato al termine della Messa con l'intenzione di accompagnare i fedeli nella vita quotidiana. Va notato che i concetti teologici esposti nel Prologo vengono ripresi e sviluppati nel corso del vangelo, così che il Prologo è la "chiave di lettura", il criterio interpretativo dell'intera narrazione. Infatti ad esempio il Prologo afferma che il Logos è la luce che brilla nelle tenebre, che divenne carne, che fu rifiutato, che manifestò la sua gloria; mentre il vangelo ci dice come e dove il Verbo si manifestò come luce, fu rifiutato, rivelò la sua gloria. Quindi il Prologo è una sorta di 4° vangelo "in nuce". "In principio....": chiaramente questa espressione fa venire subito in mente Gen.1,1: "In principio Dio creò il cielo e la terra......."; e certamente il rimando a Genesi è voluto, ma non si tratta dello stesso inizio. "En arché" di Giovanni va aldilà del momento della creazione, e d'altronde non vuole neppure indicare il punto iniziale del tempo (visto che, com'è noto, anche il tempo è una realtà creata!). Esso ci fa piuttosto uscire dal tempo e ci introduce nella sfera divina, là dove non c'è né inizio né mutamento. "...era il Verbo": il termine è la traduzione italiana di "Verbum" latino, che a sua volta rende il greco "Logos", il cui significato è "parola". "e il Verbo era presso Dio" purtroppo anche la nuova traduzione CEI è lontana dall'originale "Logos èn pròs ton theòn"= il Verbo era rivolto a Dio, in atteggiamento contemplativo. Si è detto che il Prologo è il vangelo "in nuce"; e infatti nel corso del 4° vangelo si vede come l'atteggiamento contemplativo del Logos si traduce nella vita di Gesù di Nazaret: anche quando si trova tra gli uomini, Egli guarda costantemente al Padre; il Padre, con cui il Nazareno sta in contatto permanente, è per Lui il paradigma irrinunciabile su cui modella il suo agire. Egli non saprebbe prendere un ‘iniziativa, non saprebbe assumere un atteggiamento senza "vederlo" prima nel Padre; cfr. Giov.5,19: "In verità, in verità io vi dico: il Figlio da se stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa', anche il Figlio lo fa allo stesso modo." "e il Verbo era Dio": il verbo "era", all'imperfetto, suggerisce una permanenza fuori dal tempo; c'è identità tra Logos e Dio. "In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno vinta." (vv.4-5) Assistiamo al passaggio dalla prospettiva cosmica della creazione a quella antropologica della salvezza. Vediamo intrecciarsi i concetti di "vita" e di "luce", intimamente uniti nella teologia giovannea. La luce, che qualifica il regno di Dio come il regno del bene, della giustizia, della verità e dell'amore, trova un grande ostacolo nelle tenebre, che qualificano il regno di Satana come regno del male e dell'iniquità; la nuova traduzione "le tenebre non l'hanno vinta" è certamente più vicina al senso dell'originale, rispetto alla precedente "non l'hanno accolta". "Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo"(v.9) È da notare l'elemento universalistico, già presente nel v.3 "tutto fu fatto...." e ora ribadito nei riguardi dell'umanità. Il che significa che ogni uomo, anche se di religione primitiva - come l'Africano che adora il fiume o il Pellerossa con il suo totem - è illuminato dal Logos e si trova in cammino verso di Lui, per vie note a Dio solo. E noi non possiamo fare altro che ringraziare il Signore per aver ricevuto la pienezza della Rivelazione in Cristo Gesù. "E il Verbo si fece carne..." (v.14a) L'inno raggiunge qui il suo vertice; questa affermazione è infatti il cuore del kerigma, cioè dell'annuncio, perché riferisce l'evento culminante della storia della salvezza: il Logos diventa uomo. Quanto a "carne" ("sarx" in greco e"basar"in ebraico), nel linguaggio biblico il termine non si riferisce al corpo o alla parte materiale dell'uomo, ma designa l'uomo in quanto creatura, nel suo aspetto terrestre e mortale. "e venne ad abitare in mezzo a noi" (v.14b); "venne ad abitare" in greco è "eskènosen", cioè "piantò la sua tenda". Per il beduino, uomo del deserto, la tenda è la sua casa e quindi piantare la tenda diventa sinonimo di abitare. L'abitazione di Dio in mezzo al suo popolo attraversa tutta la tradizione biblica (l'arca, il tempio, Sion) e approda qui al suo punto massimo. "e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità." (v.14bc) Qui si indica la lettura della vicenda di Gesù che la fede ha saputo fare; il "noi" che compare all'improvviso è il "noi apostolico", di coloro che hanno concretamente visto la Sua gloria. Ma che significa "vedere?" e a quali condizioni è possibile? Anzitutto "vedere" è possibile all'interno di un "noi", come dice la formula al plurale: è un vedere comunitario. Giovanni sa molto bene che la storia di Gesù è stata compresa (e continua ad esserlo) solo in una comunità credente. Quanto alla "gloria", notiamo che nel Nuovo Testamento la "gloria di Gesù" è la gloria stessa di Dio; essa compare nei grandi "segni" che il Messia compie, nella Trasfigurazione e soprattutto nella Resurrezione. Agli occhi dell'evangelista Giovanni la gloria divina che traspare nel Figlio non è solo manifestazione di potenza, ma di amore inarrivabile verso il Padre e verso gli uomini: un amore di pura offerta, che non arretra davanti al proprio annientamento, al dono della sua stessa vita. |