Omelia (14-09-2003) |
mons. Vincenzo Paglia |
Commento Giovanni 3,13-17 La liturgia di questa domenica accoglie la memoria dell'Esaltazione della santa Croce. Il 14 settembre del 335 - quasi mille e settecento anni fa - una folla numerosa di fedeli si raccolse a Gerusalemme per la celebrazione della dedicazione della Basilica del Santo Sepolcro restaurata da Costantino; e in quella occasione si ricordò anche il ritrovamento del legno della santa Croce. Da quel giorno, a Gerusalemme, viene celebrata ogni anno questa memoria. La Santa Liturgia prevede ancora oggi che il sacerdote celebrante alzi la croce e la diriga verso i quattro punti cardinali per indicare l'universalità della salvezza. Questa celebrazione, di così alto significato spirituale, non si fermò a Gerusalemme, e ben presto si estese alle varie Chiese, in quelle d'Oriente prima iniziando da Costantinopoli, e in quelle d'Occidente poi, a partire da Roma. Il libro dei Numeri ci ricorda la vicenda accorsa ad Israele mentre era nel deserto quando molti morirono per il morso di serpenti velenosi. In tale narrazione possiamo vedere la situazione di tanti popoli che ancora oggi sono morsi dalla piaga di innumerevoli "serpenti velenosi". Se ne aggirano molti anche nel nostro mondo, magari nascondendosi nelle sembianze di uomini o di istituzioni. L'elenco sarebbe davvero lungo: basti pensare alla fame e alla sete; oppure al dramma dell'aborto e dell'eutanasia; oppure a malattie come l'Aids che soprattutto in Africa continuano a mietere vittime; o anche ai conflitti e alle guerre che non cessano di creare morti mentre la maggioranza è indifferente, prima ancora che impotente. Mosè, ispirato da Dio, innalzò per quel popolo un serpente di bronzo: chi lo avrebbe guardato non sarebbe morto. Tutto ciò Mosè lo fece in figura; il suo gesto era una prefigurazione della croce. L'evangelista Giovanni lo scrive esplicitamente: "Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo" (Gv 3,14), e più avanti, quasi a ricalcare la scena biblica, aggiunge: "Volgeranno gli occhi a colui che hanno trafitto" (Gv 19,37). C'è bisogno ancora oggi di esaltare la Croce, di metterla in alto perché tutti la vedano e chi a lei si rivolge venga salvato. Potremmo dire, anche a chi non crede, o a chi vorrebbe fosse tolta, che questa croce non è contro nessuno. Al contrario, è bene metterla in mostra perché essa rende buoni i cristiani, li spinge a voler bene a tutti, li costringe ad allargare i confini del cuore perché nessuno resti escluso dall'amore che in quella croce parla in modo così mirabile. E comunque a tutti la croce parla solo di amore e di perdono. Toglierla provocherebbe un abbassamento di amore, un allentamento della tolleranza e una diminuzione di rispetto. Certo, qualcuno potrebbe dire: com'è possibile esaltare uno strumento di supplizio così abominevole e atroce? E non è insensato riservargli persino un giorno di festa? In un certo senso ha ragione. Sarebbe come se oggi noi festeggiassimo la sedia elettrica e ne ponessimo immagini ovunque e la portassimo anche appesa al collo. Saremmo certamente presi per stravaganti se non peggio. Purtroppo, c'è da dire che l'abitudine all'immagine della croce può aver fatto perdere quel senso di crudeltà che essa rappresentava: non si pensa più che la croce era tra gli strumenti di supplizio più duri e crudeli. Ma se ne perdiamo il senso di crudeltà e di supplizio non ne comprendiamo più neppure la santità. Com'è possibile, del resto, afferrare la santità della Croce se non si comprende l'amore che essa manifesta? La Chiesa con la festa dell'esaltazione della Santa Croce vuole mostrare a tutti l'indicibile amore di Gesù per gli uomini e per ciascuno di noi. Non cesseremo mai di ringraziare il Signore per il dono della santa Croce! Il prefazio della messa ci fa cantare: "Nell'albero della Croce tu, o Dio, hai stabilito la salvezza dell'uomo, perché donde sorgeva la morte di la risorgesse la vita". E' giusto esaltare la Croce: su quel legno è stato sconfitto una volta per sempre l'amore per se stessi e trionfa definitivamente l'amore per gli altri. La Croce è come la sintesi, il culmine dell'amore di Gesù per il Padre e per gli uomini. Anzi, potremmo dire che la Croce è presente sin dall'inizio nella decisione di Gesù di venire in mezzo agli uomini. Egli, potremmo dire con l'apostolo Paolo, iniziò il suo cammino verso la croce sin da quando "non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio". Per amore, infatti, e solo per amore, "spogliò se stesso assumendo la condizione di servo", per amore "umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce". Il Padre stesso si è commosso per un amore così sconfinato del Figlio al punto che "lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome". La Croce è il momento in cui morte e vita si scontrano per l'ultima, definitiva battaglia. Essa si combatte nel corpo stesso di Gesù. Un dramma di cui riusciamo a cogliere forse solo qualche scheggia quando udiamo Gesù rivolgere al Padre le drammatiche parole del salmo: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". Ma subito, come a mostrare il verso della vittoria, Gesù termina la sua vita dicendo al Padre: "Nelle tue mani affido il mio spirito". Gesù muore, è vero, ma su quella croce ha sconfitto definitivamente anche l'amore per se stessi, quell'egocentrismo che sin dalle origini tiene saldamente schiavi gli uomini. Di fronte a quella croce, tutti gridavano a Gesù, tra l'ironia e lo scherno: "Salva te stesso". E' il "vangelo" del mondo: salvare se stessi, a qualsiasi costo. Ma non è, e non può essere il Vangelo di Gesù. Come poteva salvare se stesso Colui che mai aveva vissuto per sé? Gesù diceva di sé: "Non sono venuto per essere servito, ma per servire" (Mt 20, 28); potremmo tradurre: "non sono venuto per salvare me stesso, ma gli altri". Morendo come è morto, Gesù ha mostrato la vittoria dell'amore. Se ne accorse il centurione il quale guardando come Gesù moriva, ascoltando le sue parole di abbandono al Padre, sentendolo perdonare coloro che lo crocifiggevano, comprese che quell'uomo era davvero il Figlio di Dio. Quel militare romano, che non faceva neppure parte del popolo d'Israele, abituato alla durezza e alla crudeltà della violenza e delle uccisioni, vide in Gesù uno che amava gli altri più di se stesso, uno disposto a dare tutta la sua vita per gli altri, fino a perderla. La festa di questo giorno invita tutti noi ad avere gli occhi di quel centurione perché anche noi li rivolgiamo alla croce e soprattutto a quel crocifisso; anche noi saremo toccati nel cuore e cambieremo la nostra vita. L'apostolo Paolo ci fa comprendere ancor più questo mistero d'amore: "Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto, forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori Cristo è morto per noi" (Rm 5, 7). |