Omelia (22-01-2012)
don Maurizio Prandi
Il discepolato: vivere con

Con l'ascolto della Liturgia della Parola di questa domenica torniamo al tema che già la scorsa settimana ci ha fatto compagnia: la Vocazione. Ricordate? La vicenda di Samuele nella prima lettura ci ha detto che ogni persona può sentire il suo nome pronunciato con amore e quella dei primi discepoli che nella versione dell'evangelista Giovanni sono rimandati da Gesù al desiderio che abita il loro cuore: "che cercate?" (è la grande domanda che personalmente mi ha accompagnato...). Oggi il profeta Giona e la chiamata dei primi discepoli nella versione del vangelo di Marco.

Anche oggi la figura di Giovanni Battista, sia pur appena citata, ci ricorda che è sempre attraverso qualcun altro che noi crediamo, ci ricorda che abbiamo bisogno di aiuto, che abbiamo bisogno di una guida, che da soli non ce la facciamo: è attraverso alcuni incontri che la nostra fede si nutre e che la vita si apre all'incontro con Dio.

La prima lettura ci fa gustare la figura del profeta Giona, un profeta controvoglia, alla cui predicazione anche i peggiori, anche i più cattivi, anche i più violenti si convertono. E' molto interessante la vicenda di Giona: non vuole annunciare, predicare, un po' per paura (Ninive è una città nemica, straniera, pagana...), un po' per convincimento: per lui Dio era il Dio di Israele e basta, che non doveva aver niente a che fare con gli altri popoli. La salvezza è soltanto per il popolo d'Israele. Dio però non la pensa così e si rivela come il Dio di tutti, provando ad aprire all'universalità la mente di Giona. Ninive città nemica, crudele, pagana, si converte e crede alla parola del Signore e i versetti 5 e 6 che oggi (purtroppo) non leggiamo testimoniano tutto questo: I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, dal più grande al più piccolo. Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere. Che bello: Ninive è una città di tre giorni di cammino e Giona predica soltanto per un giorno; il secondo giorno la Parola di Dio corre sulla bocca dei niniviti fino al re e il terzo giorno è il re che con le sua scelte annuncia di aver creduto alla necessità della conversione, del cambiamento (sento un bel collegamento con il vangelo di Marco, che è tutto un cammino verso il credere, verso la fede, e che giunge al suo vertice, al suo punto più alto con la confessione di fede del centurione che contemplando la morte in croce di Gesù giunge alla fede, che per Marco è il miracolo più grande). Qui allora già due buone notizie ci raggiungono grazie alla prima lettura: 1) ogni uomo è capace di conversione, di cambiamento; 2) Dio è il Dio della misericordia, del perdono. Siamo invitati allora, come il profeta Giona ad annunciare la misericordia di Dio, misericordia non riservata a pochi o ad alcuni in particolare, ma offerta a tutti! Accogliere la misericordia può essere un bell'invito che raccogliamo dalla prima lettura e la misericordia è anche la grande domanda con la quale termina il libro di Giona: "e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?
La parola cambiamento vale anche per quello che ci dice il vangelo di oggi: i discepoli sono chiamati a diventare pescatori di uomini, ovvero qualcosa di radicalmente diverso da prima. L'immagine dei "pescatori di uomini" significa senz'altro un cambiamento radicale. Ma possiamo domandarci se il termine "pescatori" non suggerisca che il vero cambiamento è interiore. Allora, non si tratterebbe tanto di un cambio di mestiere o di professione, quanto di una novità per quello che riguarda la nostra umanità e la nostra vita di fede, la nostra condizione di discepoli. Sarebbe riduttivo limitare il discorso ai soli apostoli: ogni discepolo, cioè ogni cristiano è sia pescato che pescatore.

Il brano di Vangelo ci offre una primizia: le prime parole di Gesù in Marco. Un programma, una sintesi. "Predicando il Vangelo di Dio" intanto... ovvero Gesù non enuncia una dottrina, ma rivolge la sua Parola a persone; dunque si tratta di una parola "detta a", una parola "rivolta", una parola che esprime una volontà di comunicare; e di più: oggi si vede bene l'intenzione di stabilire attraverso essa una relazione, un vincolo di comunione.
"Il tempo è compiuto", ovvero: siamo arrivati al momento importante, decisivo e questo momento coincide con il fatto che Dio si fa vicino. Dio si avvicina, si fa prossimo all'uomo ed è necessario cambiare per poter accorgersi, capire e credere in un Dio diverso da quello che si pensa ... credere nel vangelo specifica Gesù e nella teologia di Marco Vangelo non è soltanto l'annuncio in generale di quello che Gesù ha detto. Vangelo è la stessa persona di Gesù. La vicinanza del Regno non vuol dire che Dio fa tutto, no! La vicinanza del Regno è annuncio di una responsabilità, di un pezzo di strada che dobbiamo fare noi (convertirci e credere). E' bello che a questo invito segua immediatamente la chiamata dei primi discepoli. Gesù vede, parla, chiama... tutto questo ci dice che la parola di Gesù è efficace, mette in movimento e crea una comunità; non solo: appare qui la figura, fondamentale nel vangelo di Marco, del discepolo il cui cammino (e già oggi cominciamo a scoprirlo), è proprio della conversione, della sequela, della missione.

Con decisione poi Gesù invita i discepoli a seguirlo: su! Dietro di me!" Mi piace proprio questo: Gesù non chiede ai discepoli di imparare, ma di seguire. E' un modo diverso di essere rabbì, maestro, perché per la prima volta in Israele un rabbì chiama i suoi discepoli non ad imparare ma a vivere con. Gesù chiama ad una comunione di vita. E' una scuola diversa, non di apprendimento, ma un discepolato in un rapporto personale, dove il legame con Gesù costituisce l'elemento fondante. Mi sembra bello questo: Gesù, quando pensa alla sua comunità la pensa come una famiglia.

Mi piace infine anche il verbo che per due volte ritorna nel brano di vangelo di questa domenica, il verbo "lasciare" che spesso mettiamo in evidenza come chiesa quando ci si riferisce a qualcuno che entra in seminario per diventare prete o ad una monaca quando entra in noviziato e ci dimentichiamo che è presente, questo verbo, anche nel libro della Genesi e nel vangelo dello stesso Marco che riprende appunto il primo libro della Bibbia, quando si dice che i due lasceranno il padre e la madre e saranno una carne sola.
Certamente è del tutto essenziale alla verità e all'effettività della chiamata il "lasciare", presente due volte nel nostro brano; al punto che non si può pensare di seguire Gesù senza questo necessario lasciare. E anche questo non mi pare si possa riservarlo a speciali chiamate, ma sia da pensare per ogni persona che viene visitata dal Signore del Vangelo. In particolare il testo di Marco, qui al v.20, affermando che Zebedeo viene lasciato dai figli "sulla barca con i garzoni", sembra voler suggerire che la chiamata di Gesù è per una condizione nuova di libertà in confronto alla condizione dei "servi" con i quali rimane quel padre secondo la carne.