Omelia (05-02-2012)
padre Gian Franco Scarpitta
Gesù, uomo dei dolori che conosce il patire

Malesseri interiori e infermità fisiche. Sono fenomeni ormai ricorrenti e all'ordine del giorno, se consideriamo la multiforme esperienza che facciamo quotidianamente degli uni e degli altri nella molteplicità dei casi che ci si presentano.
Il tragico episodio avvenuto nella zona della mia comunità ecclesiale alcune settimane fa', cioè il suicidio di una ragazza (apparentemente) gioviale e spensierata, avvenuto inaspettatamente e senza alcun motivo plausibile che lo lasciasse presagire, mi ha lasciato interdetto su come vi siano moltissimi casi di dolori reconditi nascosti che albergano nell'animo umano e che costituiscono soprattutto nei giovani un fardello assai più insostenibile della malattia fisica. Vi sono insomma malesseri interiori che al di là delle apparenze feriscono e lacerano ancor più di una lama materiale, i quali sono per noi tutti un alone di mistero, ma per gli interessati costituiscono l'amaro ordinario di solitudine sotto mentite spoglie.
Chissà per quale motivo, molte volte si lesina nelle aperture e nelle confidenze dei problemi ed è triste quando non ci si apre nel comunicare ad altri i propri problemi e le proprie angosce.
Quanto alle malattie e ai disturbi fisici di varia natura, sappiamo molto bene la piaga che esse apportano nella nostra società e nel vissuto contemporaneo: se da una parte l'età media si è maggiormente evoluta rispetto ai trascorsi decenni per cui non è più raro incontrare persone ultranovantenni mentalmente attive, dall'altra, accanto al progresso medico e scientifico si sono moltiplicati i fenomeni di infermità fisica, si sono aggiunte parecchi altri fenomeni inspiegabili di malattie (conseguenti per esempio al fattaccio di Cernobyl) e quelle già esistenti costringono tante persone sulla sedia o addirittura a letto, anche in tenera età. E' straziante dover assistere al dolore irrimediabile di chi soffre e non sapere quale espediente o pretesto inventare per dare conforto e speranza. Se è vero che non possiamo giudicare moralmente lecita e ammissibile l'eutanasia, è pur da prendere in seria considerazione lo stato di frustrazione, di dolore e di deperimento psicologico e di disperazione in cui versano quanti decidono di farvi ricorso.
La malattia è sempre stata una realtà contro la quale l'uomo deve lottare.
Diceva un autore anonimo che l'esperienza è il docente più severo: prima ti fa' l'esame e poi ti spiega la lezione e questo assioma è ancora più reale quando si fa esperienza del dolore e della malattia, visto che all'esame essa ci coglie davvero impreparati eppure costituisce una lezione sia per chi soffre sia per chi è in salute.
Ma quello che molte volte mette alla prova la nostra fede è l'interrogativo inquietante: "Che cosa ho fatto per meritare di soffrire?" E soprattutto: "Perché a patire è quasi sempre il giusto, mentre il perverso e il malvagio sembrano perseguire indisturbati e immuni il loro itinerario di vita?" Sono di fatto questioni non trascurabili e di innegabile difficoltà, dal momento che non trovano risposta immediata e convincente e non sempre sono sufficienti le parole della fede a confortare chi soffre.
Chi versa in condizioni di lancinante sofferenza e non vede alcuna via d'uscita dalla propria condizione, difficilmente accetta soluzioni teologiche o spirituali alla problematica del male fisico, perché argomenti di tal fatta sembrano non di rado scaturire da chi non è in grado di condividere nulla della malattia, trovandosi in una posizione di estrema sicurezza, all'infuori del letto di dolore.
Eppure una risposta occorre che la troviamo e dalla nostra prospettiva essa non può che riguardare il Crocifisso, che per amore ha patito e spasimato per l'umanità.
Il teologo Greshake afferma che senza la sofferenza l'amore sarebbe un "cerchio triangolare"; in altre parole che Dio permette (non vuole) il dolore perché senza di esso non vi sarebbe la libertà e per ciò stesso neppure l'amore né la possibilità di amare concretamente. E in effetti chi accoglie la sofferenza non per masochismo ma nello spirito della fiducia, della sopportazione e animato dalla fede, si radica nell'amore per Dio e per il prossimo. Chi soffre infatti partecipa al carattere espiativo della croce di Cristo, realizzando con Lui il riscatto delle colpe proprie e altrui, completando nella propria carne ciò che manca ai patimenti di Cristo. La malattia è quindi occasione per essere missionari di salvezza assumendo nel proprio corpo la croce di Cristo ed essere così partecipi del suo stesso riscatto. Essa ha una finalità educativa che mette a raffronto l'uomo con se stesso e con la propria insufficienza e che aiuta a scoprire la nostra fondamentale debolezza; ma quello che è più importante, il dolore fisico è occasione per entrare in comunione intima con Dio e per quanto esso sembri contraddittorio con la realtà di un Dio buono, giusto e benevolo nei nostri confronti, va affrontato e sostenuto con rassegnazione e fortezza d'animo, sempre pronti a consacrare ogni nostro vagito al Signore nella consapevolezza che la malattia aiuta a familiarizzare con Dio.
Gesù si mostra anche solidale egli stesso con gli ammalati, considerando il loro stato disagevole di abbandono e di sofferenza. Egli fa' propria ciascuna delle malattie che gli vengono presentate nella persona della suocera di Pietro, degli ammalati e degli indemoniati, sui quali interviene manifestando con il suo atto di guarigione la vittoria di Dio sul male. Nel sollevare la suocera di Pietro febbricitante, Gesù mostra padronanza e superiorità sulla malattia stessa (e la febbre la lasciò), palesando la misericordia e l'amore del Padre nei suoi interventi d'amore solleciti e tempestivi. Probabilmente non sempre Gesù interverrà con la stessa efficacia miracolistica nei curando le nostre infermità odierne; forse non sempre potremo attenderci gli stessi miracoli da egli compiuti sugli infermi citati dagli evangelisti e certamente il suo procedere non ha la stessa immediatezza che aveva nei loro confronti. Tuttavia egli non manca di risollevare ogni afflitto e ogni ammalato facendo sì che questi interpreti la propria esperienza come occasione di speranza e di gloria ventura e realizzando che questi trovi nello stesso Signore il fondamento e lo sprone di fiducia e di perseveranza, nella consapevolezza che il dolore, se accolto con vera fede, non è mai inutile o infruttuoso.
Non è fuori luogo che Gesù sosti in solitudine e in orazione isolandosi da tutti dopo aver operato guarigioni: la preghiera è infatti è comunione con il Padre e questa stessa comunione egli intende realizzare con i destinatari della sua guarigione fisica e spirituale. Realizzando e incentivando la propria familiarità intima con il Padre, Gesù acquisisce i fondamenti della vera guarigione da apportare ad altri, sia nel corpo che nello spirito e intanto fonda le ragioni della speranza o della fiducia, o se non altro le motivazioni convincenti per le quali la sofferenza ha il suo valore e la sua efficacia.
Ma è soprattutto l'esperienza personale del dolore di Cristo sulla croce che convince sul dolore e sulla malattia, in quanto il patire di Cristo in esso diventa il patire del sofferente e la configurazione speciale per chi soffre viene data dalla prospetiva della croce che diventa risurrezione. Cristo nella morte ha assunto il doolre dell'umantià facendolo proprio e integrando ad esso il patema del riscatto e il suo soffrire diventa patrimonio dell'ammalato.
Non c'è che una risposta dunque al problema della malattia e della sofferenza e questa la si trova in una persona che è anche un evento: Gesù Cristo, che ha l'ultima parola sul male e sulla morte e la cui parola è determinante perché anche nel dolore e nella sofferenza vi sia la vittoria della risurrezione