Omelia (05-02-2012) |
don Maurizio Prandi |
Liberi per servire La liturgia della Parola di Dio che abbiamo ascoltato apparentemente segna una discontinuità con quanto domenica scorsa abbiamo sottolineato. In realtà non è così e il libro di Giobbe è la prima traccia importante: abbiamo ascoltato una parola umana, fortemente umana. Una parola senza un filo di speranza (C. Doglio) anche se, visto che è diretta a Dio, la speranza che ci sia qualcuno che ascolti c'è. Il libro di Giobbe sviluppa un tema fondamentale, quello della relazione con Dio, lo stesso che abbiamo introdotto domenica scorsa: non la malattia, ma la relazione con Dio è al centro del libro di Giobbe, che, colpito negli interessi, negli affetti e nel fisico, chiede a Dio il perché di tutto quello che gli capita! Giobbe ricerca il senso della vita nella relazione con Dio. Ricordo che il professore di Sacra Scrittura ci disse proprio questo: l'autore del libro di Giobbe è prima di tutto un teologo, vuole fare un discorso su Dio; è un uomo profondamente e concretamente religioso, con esperienze interiori forti, determinate, e queste esperienze cerca di trasmettere ai lettori. E' molto colto, sa tantissime cose, ma non scrive per fare sfoggio della sua cultura, semplicemente cerca di far partecipe il lettore di un cammino di fede. Se volete, possiamo riassumere così l'insegnamento che ci viene da questo libro della Bibbia così importante: è necessario passare da una conoscenza di Dio "per sentito dire", ad una esperienza personale, ad una relazione personale. Prima ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono dice Giobbe verso la fine del libro; ma che cosa vuol dire? Vedere Dio per l'autore del libro significa incontrarlo personalmente, creare una relazione da persona a persona e tutto questo è molto ma molto diverso dall'avere semplicemente tante nozioni su Dio. Dunque l'invito alla relazione, al rapporto personale, ancora una volta. Gesù è la risposta di Dio alla domanda dell'uomo, al desiderio di relazione dell'uomo. Una risposta che mi persuade perché è una risposta "difficile", che non risolve con un colpo di bacchetta magica, che cambia la malattia in salute rimediando a tutti i problemi, no. E' una risposta che chiede di fare un percorso perché la risposta di Dio è una risposta di condivisione del cammino dell'uomo: Gesù entra come medico ma accetta la Croce (C. Doglio). Credo che il miracolo raccontato nel brano di vangelo di oggi ci dica tutto questo: il miracolo non è qualcosa di fine a se stesso, ma apre al cammino del servizio, della disponibilità: la febbre la lasciò ed ella li serviva. I primi versetti del brano di oggi li trovo impregnati dal desiderio di relazione che Dio ha in Gesù, un desiderio urgente, infatti il termine "subito" è ripetuto due volte nel giro di pochissimo. Dalla sinagoga si spostano nella casa, un luogo dove l'intimità, lo stare insieme è sicuramente favorito e anche lo specificare i nomi (Simone, Andrea, Giacomo, Giovanni...) rimanda alla relazione personale, al chiamare "per nome" appunto. Ma non solo... subito parlano a Gesù della suocera di Simone, di una persona malata, che necessita il suo aiuto: è una forma di preghiera, una preghiera di intercessione e importantissimo per me sempre è quel prendere per mano quel toccare, che è un sintomo di accoglienza, di vicinanza, di amore. Ecco che per Gesù la relazione implica il contatto, la fisicità. Non esiste una relazione "distaccata". Anche simbolicamente questo miracolo è molto importante perché introduce il tema della risurrezione: il verbo tradotto con "era a letto" in realtà bisognerebbe tradurlo con giaceva (un verbo che dice la staticità, l'immobilità, il blocco, la "morte") e quel verbo la sollevò, che nel corso del vangelo di Marco assumerà un importanza sempre più grande fino a significare la risurrezione di Gesù. Dicevo prima che il miracolo è per il servizio; aggiungo qualcosa che leggevo in un commentario e che mi è piaciuto molto: il verbo servire (diakoneo) è lo stesso che esprimerà il servizio del dare la vita da parte di Gesù. Questo, che per tanti è il primo miracolo di Gesù nel vangelo di Marco, ci dice che questa donna, della quale poi non si parlerà più, da subito è entrata nella logica che guida la vita e le scelte di Gesù: il dono della vita! L'incontro, la relazione avviene così: Dio in Gesù ci visita, guarisce la nostra vita e ci rende "liberi per servire". Non è per essere acclamato che Gesù fa un miracolo, non è per essere riconosciuto come Dio: è perché l'uomo non resti chiuso ma si apra ai fratelli in una relazione gratuita e continuata (il verbo è all'imperfetto) di servizio. Gesù si trova di fronte una strana assemblea; mi piace che Marco voglia dare questo taglio liturgico proprio con il verbo "riunire". Sottolineo qui, con l'aiuto di un commento ascoltato da don Giovanni Nicolini, alcune cose che mi paiono belle: l'evangelista specifica che siamo di sera, il sabato è terminato e l'impedimento "legalistico" ad andare da Gesù non c'è più; la circostanza della sera e della notte serve ad accentuare la percezione di una storia ferita, affaticata e bisognosa di una luce nuova. E' molto bello anche il fatto che Marco specifichi che vengono portati al Signore "tutti i malati e gli indemoniati", e che più avanti si dica che "tutta la città era riunita davanti alla porta", come dire che il male è presente in ogni persona, e tutti hanno bisogno di essere salvati! Ripeto ancora l'importanza del termine che dice "l'essere riuniti", perché è un termine liturgico per descrivere l'assemblea che, convocata intorno a Gesù è visitata dal suo potere di bene. Godiamo infine di un ultimo particolare: quello della porta che credo molto significativo, dice qualcosa di più che la semplice porta di casa del Signore, ma ci indica forse Lui stesso come "porta" della salvezza di tutti noi. |