Omelia (12-02-2012)
padre Gian Franco Scarpitta
Malati di pregiudizio e di falso orgoglio

Gesù ha ragione del dolore, dell'infermità e della morte. Ce ne ha dato la certezza egli stesso nella liturgia della scorsa domenica, nella quale riflettevamo sulla pazienza e la solidarietà che usava nei confronti degli ammalati e degli indemoniati. Ma se qualsiasi malessere fisico offre a Gesù l'occasione di mostrare misericordia, quella della lebbra è la circostanza nella quale siffatta misericordia diventa ancora più palese e assume maggiore profondità, poiché delinea un nesso molto importante fra malattia e peccato. Gesù da Figlio di Dio distrugge sia questa che quello, lasciando l'uomo libero e intatto.
Intervenire sulla lebbra non era come intervenire su qualsiasi altra malattia. Anche per Gesù.. E' risaputo infatti che nell'Antico Testamento qualsiasi infermità era considerata una conseguenza del peccato o anche l'effetto di una colpa propria o di uno dei progenitori; nel caso della lebbra però il soggetto interessato oltre che reo di colpa grave era tacciato di impurità. Al minimo sospetto di lebbra, quando nella pelle si presentava una sola chiazza di bianco, si era tenuti, come descrive il libro del Levitico, ad intraprendere un processo di purificazione immediata con l'aiuto del Sacerdote; per tutto il tempo in cui perdurava la malattia, si doveva vivere lontani dalla comunità e proclamare pubblicamente il proprio stato di impurità. Potremmo dire che il lebbroso era uno scomunicato, un escluso nonché reietto dalla società almeno fin quando il suo male non era scomparso del tutto e finché non avesse adempiuto i successivi obblighi di purificazione. Questo per il semplice fatto che un eventuale contatto fisico con altre persone contagiava immediatamente, rendendo queste affette della medesima malattia ed impurità.
Dicevamo che anche per Gesù guarire un lebbroso non era come guarire uno storpio, un sordomuto o qualsiasi altro ammalato. Per i motivi che abbiamo appena esposto, egli infatti entrando in contatto con l'ammalato impuro si rendeva impuro a sua volta, almeno secondo la mentalità dell'epoca: Gesù tocca il lebbroso, interagisce con lui, gli parla e gli usa estrema confidenza superando tutti i pregiudizi e le ristrettezze mentali della cultura dominante, eppure è ben consapevole che intanto il suo gesto è suscettibile di interpretazioni perfide e settarie.
Nella Bibbia questo non è l'unico caso di guarigione dalla lebbra: anche Naaman il Siro, colpito dallo stesso male, viene guarito dal profeta Eliseo; questi, con somma meraviglia dell'interessato che per questo gli usa inizialmente rimostranza e deplorazione, non gli si avvicina né lo tocca. Gli ordina semplicemente di andare ad immergersi nel Giordano sette volte poiché così recupererà la guarigione. Cosa che avviene prontamente visto che una volta effettuata la ripetuta immersione nel fiume indicato, la pelle di Naaman diventa monda come quella di un bambino ed egli può considerarsi guarito nel corpo e nello spirito (2 Re 5, 1-19). Il provvedimento risolutore di Eliseo è molto illuminante e degno di nota poiché concretizza l'amore di Dio che si esplica nell'opera di un suo umile profeta e servitore; tuttavia non è singolare ed edificante come quello di Gesù, il quale non mostra alcun problema ad instaurare con i lebbrosi una relazione di contatto diretto, epidermico e spontaneo, noncurante che il contatto fisico con un affetto di lebbra potrebbe rendere anche lui "impuro" agli occhi degli astanti e dei concittadini. Egli si mostra determinato nel superare una concezione assurda e ridicola come il pregiudizio sociale nei confronti di un malcapitato affetto di lebbra.
L'atteggiamento di Gesù pertanto non tende a risolvere solamente un caso di guarigione fisica, ma anche il recupero della sanità culturale di una popolazione affetta da una malattia cancerogena e perniciosa come quella del pregiudizio e della preclusione verso chi soffre. Gesù tende a liberare dalla piaga del perbenismo e della discriminazione sociale, dal malessere comune della divisione che avvelena l'andamento dei rapporti fra gli uomini.
Se infatti non ci si libera dal morbo della malizia interiore e del mancato riconoscimento dei diritti di chi soffre e di chi è abbandonato, ci si autocondanna ad una convivenza segnata dall'odio e dal sospetto, nella quale le tensioni e gli urti si moltiplicano.
L'atto di Gesù non può passare inosservato affinché si possa superare l'indifferenza e la freddezza apatica con cui anche oggi siamo soliti atteggiarci molto spesso nei confronti dei sofferenti, degli ammalati, degli esclusi, degli emarginati e di quanti si aspettano un solo gesto di condivisione e di fiducia per reintegrarsi nella nostra società.
Ci si premunisce per esempio dai tossicodipendenti e dagli alcolizzati e si adopera anche circospezione e prudenza nel trattare chi abbia da poco abbandonato un simile stato di vita deforme e abbandonata, senza considerare il dovere di solidarietà e di fiducia nei confronti di chi ha sbagliato e vuole ora emendare la propria condotta. Come se da parte nostra non avessimo proprio nulla da rimproverare a noi stessi.
Gesù ci invita a valicare le presunzioni con cui siamo soliti trattare quelli che consideriamo gli "impuri" dei nostri giorni, cioè appunto gli sfiduciati e gli abbandonati.
Il suo tocco disinvolto e libero sul lebbroso ci invita a mostrare nei loro confronti il medesimo coraggio e lo stesso atto di prontezza caritativa e solidale, liberi da ogni compromesso con il pregiudizio, con la distanza e la ritrosia.
C'è di più. Come per implicito si è già detto, Gesù supera anche la falsa concezione del legame fra il peccato e la malattia, ma se negli uomini del suo tempo vi è la comune credenza per cui un ammalato (specialmente lebbroso) è reo di colpa grave, ebbene egli mostra la sua vittoria sul peccato parimenti che sulla malattia. Anzi, proprio il peccato è il male che Gesù tende ad estinguere prima ancora del dolore fisico o in modo concomitante ad esso. Dice S. Agostino in un suo Sermone che vi è differenza fra un MALATO e un INFERMO: il primo è chi soffre di un malessere o disturbo fisico; il secondo è invece "colui che non sta fermo", cioè l'inquieto e l'insoddisfatto, lo smarrito. Quest'ultima condizione è propria del peccatore che non trova pace né stabilità con se stesso a motivo della propria colpa e dello stato di precarietà che essa comporta per se stesso e per gli altri.
Ecco perché Gesù usa tanta benevolenza nei confronti di questo lebbroso, il quale gli si avvicina con fare dimesso e risoluto forse non solamente perché fiducioso di una guarigione fisica, ma anche nell'aspettativa del perdono del suo peccato. L'espressione "Se vuoi, puoi purificarmi" indica infatti un'implicita ammissione di colpevolezza su un peccato commesso che ora è sottoposto al giudizio del Salvatore, per cui il soggetto chiede la liberazione innanzitutto dal peccato, quindi dal malessere crudele che lo attanaglia in senso fisico. Gesù non ha difficoltà ad intervenire soprattutto perché riscontra nel suo interlocutore una fede sincera, forte e disinvolta che scaturisce da un previo processo di conversione che è meritorio di questa e altre ricompense. In definitiva, Gesù interviene sulla malattia mostrando la misericordia del Padre anche indipendentemente da ogni peccato, e tuttavia ci risana anche dal peccato che non è una malattia, ma una seria infermità.