Omelia (12-02-2012) |
Giovani Missioitalia |
Io, Lebbroso Devo riconoscere che sono stato infedele ai miei ideali di giovane degli anni sessanta. Ci furono due grandi uomini in quegli anni che ci invitarono a fare delle scelte che forse avrebbero potuto cambiare il mondo se fossimo stati coerenti con quello che andavamo sbandierando nelle piazze e nelle scuole: Albert Schweitzer fondatore di "Lambaréné" e Raoul Follereau ideatore di tante fondazioni tra cui "Mani Tese", tutti e due dalla parte dei lebbrosi, tutti e due fedeli a Cristo e all'umanità, fino alla fine. Il Vangelo di Marco di questa domenica (1,40-45) ci presenta Gesù e un lebbroso, un incontro decisivo per tutti e due. Da una parte Gesù che entra in contatto fisico con l'impurità del mondo e la guarisce. Dall'altra parte il lebbroso guarito che proclama e divulga la venuta del Regno. Dal 1998 al 2003 sono stato per alcuni periodi in Myanmar (Birmania). Un giorno di dicembre del 2002, mentre ero a Kengtung, una città sul confine con la Cina, mi fu chiesto se volevo andare a visitare il lebbrosario. Devo dire che era un'esperienza che avevo sempre desiderato di fare. È stata l'esperienza più traumatica della mia vita. Avevo visto tante foto di persone che avevano contratto la lebbra, immagini raccapriccianti, ma non avevo mai dovuto entrare fisicamente in contatto con loro. Il padre birmano che mi portò a quel lebbrosario mi avvertì, lungo il viaggio in macchina, che forse sarei rimasto impressionato dai segni che la malattia aveva prodotto in tanti di loro, ma lo rassicurai dicendogli che avevo sempre sperato di poter lavorare per loro. All'ingresso di quel villaggio ci vennero incontro alcuni ragazzi con ghirlande di fiori, la gioia era visibile e tangibile sui loro volti. P. Amin, il sacerdote birmano, mi disse che erano i figli dei malati di lebbra. Alcune suore birmane e una delle ultime italiane che erano rimaste in Birmania, dopo l'espulsione di tutti i missionari nel 1956, mi fecero visitare i padiglioni dell'ospedale e le altre strutture sanitarie sopravvissute alle misure restrittive del governo che non permette ai religiosi, ancora oggi, di tenere scuole e ospedali, permette solo di occuparsi dei lebbrosi o degli handicappati gravi. Fu a questo punto che il sacerdote birmano mi chiese di celebrare la S. Messa per i malati cattolici del lebbrosario. Fui felice di accettare. Entrammo in Chiesa e mi resi conto che non era il luogo dove avrei voluto essere. C'erano centinaia di persone che istintivamente mi rifiutavo di guardare, distoglievo lo sguardo dall'una all'altra cercando un volto che non mi rimproverasse con la sua mancanza di labbra, naso, orecchie, volto. Tentavo di non guardare alle mani senza dita giunte in preghiera che mi salutavano. Alzavo lo sguardo per non incontrare la vista di tanti a cui la malattia aveva consumato i piedi. Non ebbi il coraggio di rispondere alla smorfia del loro sorriso. Ma il momento più difficile fu quando mi fu chiesto di dare la Comunione. Tentai tutti i modi di non toccare le bocche che non avevano più labbra o le palme delle mani le cui dita erano state divorate dal morbo di Hansen. Mi ricordai allora del Vangelo di Marco che racconta del contatto fisico di Gesù con il lebbroso. Mi resi conto che in tutti quegli anni avevo parlato di lebbra per riempirmi la bocca e stare bene con me stesso: la lebbra non era mai diventata mia. Non mi era accaduto quello che era successo a p. Damiano di Molakai, diventato lebbroso per aver vissuto con loro, la paura mi aveva fatto rimanere "incorrotto", ero stato solo uno sfruttatore del dolore degli altri, non l'avevo fatto mio. Mi resi conto allora, e adesso, di non essere stato ancora capace di toccare Cristo. Mi resi conto che Dio in Cristo aveva toccato tutta l'umanità per farla propria, per ridonarle nobiltà e pienezza di vita. Mi resi conto di non credere che Dio è diventato uno di noi. Signore, svestimi dell'orgoglio di cui mi sono rivestito quando mi hai consacrato perché divenissi le tue mani che ancora cercano di toccare e sanare la lebbra del mondo per poterla consumare sulla croce del tuo eterno sacrificio. Guariscimi, Signore, dalla malattia della purità che mi fa rimanere lontano dall'umanità, che mi tiene asettico dal dolore del mondo, che mi mantiene sull'altra parte della strada per non essere contaminato dal mondo abbandonato, mezzo morto, per paura di corrompermi con le sue piaghe. Portami, Signore, a baciare le piaghe aperte del mondo perché solo un bacio d'amore è capace di curare e guarire coloro che le nostre paure e il nostro perbenismo hanno respinto nei lebbrosari, dove la loro vista non ci accusa della nostra insolenza. Perdonami, Signore di non aver avuto il coraggio di accostarti e amarti dove il tuo amore ha fatto di te quello che io ero per dare a me il privilegio di diventare il "purificato" figlio di Dio. Conducimi, Signore, dove tu sei, perché solo dove sei tu sgorga la vera vita a cui l'amore del Padre tuo ci ha predestinati. Per la riflessione:
Il commento è di padre Ciro Biondi, mssionario del PIME in Papua Nuova Guinea. |