Omelia (12-02-2012) |
don Alberto Brignoli |
La gloria di Dio? È l'uomo vivente! "Fate tutto per la gloria di Dio". Cosa ci avrà voluto dire, Paolo, con questa lapidaria esortazione contenuta nella seconda lettura di oggi? Il contesto della lettera scritta alla comunità cristiana di Corinto ci fa pensare alla situazione di una comunità ricca di elementi di spicco, con personalità ben marcate, che rischiavano - soprattutto con certi loro atteggiamenti disinibiti - di emergere sopra gli altri mettendosi in bella mostra; mentre Paolo più di una volta sottolinea che ciò che deve emergere è il Vangelo di Gesù Cristo. Con onestà, quindi, il discepolo deve annunciare il Maestro, deve fare tutto perché a lui, e non a se stesso, venga resa gloria. Ma è al brano di Vangelo di quest'oggi che mi piace abbinare l'affermazione di Paolo, perché è lo stesso Maestro a darci l'esempio di cosa significhi "rendere gloria a Dio". Così come in altre occasioni nel Vangelo di Marco, Gesù non approfitta di un evento prodigioso da lui compiuto per farsi pubblicità o per esaltarsi di fronte agli uomini del suo tempo, né tantomeno per rivelarsi al mondo come il Messia (ricordiamo la caratteristica specifica del Cristo di Marco che va sotto il nome di "segreto messianico"). Per Gesù, un miracolo non è solo la manifestazione della potenza di Dio, ma è anche - e soprattutto - un'occasione di misericordia sperimentata da chi riceve il beneficio ed è chiamato a sua volta ad attuare un cambio significativo nella propria esistenza. Dall'esortazione alla conversione, alla missione di annunciare al mondo la grandezza della misericordia di Dio, fino all'invito a reintegrarsi in una comunità di fede dalla quale ci si sente o effettivamente si è stati esclusi: quando Gesù Cristo guarisce qualcuno nel Vangelo di Marco, sempre affida a lui il compito della testimonianza e della ricerca di una vita rinnovata. Questo significa "fare tutto per la gloria di Dio": questo è quanto chiede all'uomo guarito dalla lebbra, che soffriva più per l'isolamento totale dalla comunità che per la malattia stessa. Ed è la situazione che si trova a vivere molta gente credente oggi, colpita da una lebbra che non è più fisica (almeno nel nostro emisfero) ma senz'altro ha implicanze morali profonde. Mi riferisco alle persone che per diversi motivi sono escluse dalla comunità dei credenti: perché hanno sbagliato, perché la pensano in maniera non del tutto ortodossa, o forse solo perché sono dei "diversi". Come ai tempi del Levitico, dove le leggi di esclusione del lebbroso dalla comunità erano per lo meno motivate da uno spirito ancestrale di conservazione del popolo, altrimenti a rischio di estinzione, anche oggi atteggiamenti assunti dalle nostre comunità cristiane nei confronti di persone che vivono situazioni anomale, difficili o anche solo diverse da quelle usuali, pur non avendo carattere di legge creano comunque situazioni di discriminazione che catalogano i membri di una comunità in "buoni e cattivi", in "regolari e irregolari", in "giusti e peccatori". E - ciò che è peggio - riteniamo, dettando legge agli altri su come ci si debba comportare e su quali siano i criteri di appartenenza o meno alla comunità, di poterci gloriare di aver annunciato la verità del Vangelo a chi non la conosce o fa fatica a viverla; nella convinzione personale che noi, invece, quella verità la possediamo in pienezza. Ma, come cita un versetto della Liturgia, riprendendo la teologia sottostante al salmo 144, "la gloria di Dio è l'uomo vivente": e l'uomo vivente è l'uomo che trova e ritrova vita anche laddove tutto parla di morte. Questo non può avvenire attraverso un atteggiamento giustizialista di giudizio e di condanna, neppure in nome di una verità da proclamare senza finzioni! La gloria di Gesù Cristo per aver sanato un malato di lebbra non viene certo dal desiderio di essere fatto re dalla folla in festa, ma dall'aver ridato vita e reintegrato pienamente nella comunità una persona giudicata non solo immonda ma addirittura intoccabile: e Gesù fa questo abbattendo le barriere della legge e del pregiudizio, ovvero toccando il lebbroso, addirittura esponendosi, se non al contagio, certamente all'impurità rituale che gli avrebbe impedito quantomeno di entrare nel tempio o in una sinagoga. Quasi a dire: "Che mi importa andare una volta in meno al culto, pur di salvare una vita? Che mi importa di essere guardato con sospetto dai credenti, pur di accogliere con misericordia un fratello lontano?". Se vogliamo, come Paolo, farci "imitatori di Cristo", la nostra gloria di discepoli non dovrebbe quindi essere data dalla capacità più o meno grande di manifestare ai fratelli esclusi l'inadeguatezza della loro vita e della loro condizione, e nemmeno dalla capacità più o meno grande di far prendere loro coscienza del loro peccato. Essi sanno bene in che situazione si trovano, non hanno certo bisogno di sapienti teologi che glielo ricordino: perché mai infierire ulteriormente, più di quanto la vita ha già fatto su di loro? Se di qualcosa hanno necessità, è senza dubbio di qualcuno che annunci loro la misericordia di Dio, di qualcuno che stenda ancora le braccia verso loro, che non abbia paura di toccarli, che possa addirittura guarirli non con gesti di condanna, ma con atteggiamenti di ascolto, di paziente attesa e di carità. Non avremo mai scoperto abbastanza quanto bene può fare e quanto Vangelo può annunciare una mano tesa a toccare la vita di un fratello che chiede di essere liberato da una lebbra che esclude e allontana. E credetemi: non c'è peggior lebbroso di chi giudica gli altri, e solo essi, bisognosi di salvezza. |