Omelia (04-03-2012) |
don Roberto Rossi |
Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi C'è un libro intitolato " I monti della Bibbia". Nella Bibbia la montagna è luogo della presenza di Dio, quindi della bellezza, del silenzio meditativo, della perfezione e della prova. Si fa così simbolo dell'elevazione dell'uomo. Nella liturgia di oggi abbiamo m i racconti di ciò che avvenuto su due di questi monti, il monte Moria (1) e il Tabor. E' descritta l'intensa e durissima prova di Abramo che sale sul monte con il figlio Isacco per offrirlo al Signore che glielo ha chiesto in sacrificio. Ma al culmine di questa offerta della fede e del cuore, il Signore risparmia ad Abramo il suo figlio e procura un ariete da sacrificare al suo posto. Ma Dio non ha risparmiato il proprio Figlio e lo ha consegnato sul monte, sulla Croce per tutti noi. E Gesù per preparare i suoi apostoli all'esperienza durissima del suo sacrificio, della sua morte, per non si scandalizzino, perché non si perdano, offre loro il momento sublime della trasfigurazione. Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e salì su un alto monte e si trasfigurò davanti a loro. Fece vedere e gustare la luce, la gloria, la potenza del suo essere Figlio si Dio. Lui che avrebbe accettato e offerto la passione e la morte, non era uno qualsiasi, era il Figlio dell'Altissimo, il Salvatore di tutti. Apparvero Mosè ed Elia a conversare con lui, della sua passione. Tutta la legge e i profeti avevano annunciato la missione del Figlio di Dio, del Salvatore, e ora ne davano testimonianza. Cioè la grande opera della salvezza del mondo sarebbe avvenuta nella passione e morte e risurrezione del Figlio di Dio. Discesero e li invitò a non parlare a nessuno di quello che avevano visto e udito, finche non fosse risorto dai morti. Ma si chiedevano cosa volesse dire "risuscitare dai morti": I tre apostoli scelti sono gli stessi tre che chiamerà nell'orto degli ulivi durante la sua agonia e la sua intensa preghiera di affidamento al Padre. Sul Tabor abbiamo Pietro che dice: "E' bello per noi stare qui". Ed è importante sperimentare la bellezza, la gioia, la profondità della preghiera che dà gioia al cuore. Nell'orto degli ulivi non saranno cagaci di vegliare un'ora con lui, sperimenteranno tutta la loro debolezza e la fragilità del loro amore al Signore. Ma Gesù insegnerà che soprattutto nei momenti difficili è necessario affidarsi alla preghiera e alla volontà del Padre, che è sempre volontà di bene, anche se muore. Sul Tabor Gesù si fa vedere n tutto lo splendore della sua gloria di Figlio di Dio, sul Calvario mostrerà tutta la passione e la morte come di un condannato. Ma occorre vivere nella speranza, che è la certezza che Dio ridà la vita. E' la risurrezione che conta. Non lo capiranno ora gli apostoli, lo comprenderanno dopo. Anche noi non lo comprendiamo, lo comprenderemo. Questa è la fede: la fede di Abramo, la fede in Cristo risorto degli apostoli, la fede di ciascuno di noi. (1) Che cos'è il monte Moria? È per eccellenza il monte della fede. Sappiamo che nel racconto del capitolo 22 della Genesi, una pagina tra l'altro di straordinaria fragranza non solo teologica, ma anche narrativa, Abramo si trova di fronte alla prova più ardua della sua fede. Dio infatti lo invita quasi a smentire se stesso: Isacco non era forse il figlio della promessa e quindi il dono di Dio per eccellenza? Come andare contro la promessa stessa di Dio per ordine dello stesso Dio, uccidendo Isacco, cancellando per ciò stesso il senso della promessa? Si tratta qui, dunque, di un'esperienza che è l'esperienza più lacerante possibile, più tenebrosa. In quel momento appare un Dio amato e crudele allo stesso tempo e Abramo deve credere in lui correndo il rischio estremo, il rischio dell'assurdo, perdendo tutte le ragioni del credere, comprese le ragioni stesse della fede, cioè il figlio suo, dono di Dio. È per questo motivo che l'autore sacro, nel descrivere i tre giorni di viaggio per ascendere le pendici del monte Moria, mette in scena un dialogo tra Abramo e suo figlio continuamente ritmato sulle relazioni di paternità e filiazione: "padre mio", "figlio mio", si dicono continuamente tra di loro, aggrappandosi all'unico valore che essi hanno, quello della paternità e della filiazione, cioè a un valore umano, in quanto non c'è più ormai alcun valore evidente di fede che possa aiutare in questo pellegrinaggio verso l'assurdo. E lassù sul monte, alla fine, si consuma il dramma (Ravasi). |