Omelia (18-01-2004)
padre Gian Franco Scarpitta
Il vino... divino

L'ora di Gesù avverrà al momento del suo arresto, quando sugli aguzzini e sulle guardie dominerà l'impero delle tenebre. Questo consentirà loro la cattura del Signore e la sua condanna a morte per la resurrezione, secondo il prestabilito progetto salvifico del Padre.
Ed è per questo che adesso Gesù pone obiezioni alla madre sua quando lei lo informa dell'improvvisa mancanza di vino nelle tavole dei commensali: "Non è ancora giunta la mia ora". Intende dire infatti che non è ancora arrivato il suddetto momento stabilito da Dio per il riscatto dell'umanità, nel quale Gesù potrà manifestare il senso reale della sua permanenza fra noi; e il fatto che si rivolga alla madre in modo crudo e distaccato, chiamandola "donna", attesta appunto che le sue relazioni sono esclusivamente rivolte al Padre e che a Lui solo Egli sta rendendo conto e pertanto i legami di parentela, anche quelli sanguigni, passano in secondo piano.

Tuttavia la madre non demorde. Già con la sua affermazione "Non hanno più vino" non tendeva ad esprimere un semplice desiderio affinché il figlio ponesse rimedio alla situazione, ma esternava un atto di fede: si era infatti nel pieno di un banchetto nuziale dalla durata di nove giorni e come in tutte queste circostanze il vino era elemento di comunanza e di gioia. Se ci si fa' caso, il vino in tutte le nostre tavole non è elemento indispensabile: di esso si potrebbe anche fare a meno purché ci sia l'acqua, tuttavia esso caratterizza l'esaltazione del sapore dei cibi incutendo sollievo e contentezza. Il vino esprime insomma sempre la gioia, l'allegria e la soddisfazione e se questo in un certo qual modo è riscontrabile presso di noi, per la tradizione giudaica costituisce un dato ancora più rilevante: quando in una festa viene a mancare del vino non vi è più il senso della medesima festività e tutto il clima di gioia viene a perdersi. Ci sarebbe anzi da domandarsi come mai proprio in quella circostanza, a Cana di Galilea fosse venuto a mancare del vino.
Dicevamo, Maria compie un atto di fede con il semplice dire "Non hanno più vino"; ma in che senso?
Lo si capisce se si guarda un po' a rallentatore la scena del prodigio che Gesù va realizzando: vi sono sei giare per la purificazione dei Giudei; queste su ordine di Gesù vengono riempite di acqua e portate al maestro di tavola; il quale sembra non accorgersi della transustanziazione acqua-vino ma... "assaggia l'acqua divenuta vino" e crede che lo sposo sia stato tanto zelante da conservare sempre il vino buono, in altre parole non si accorge che è avvenuto il miracolo e quindi la cosa non suscita stupore... Tutto questo che cosa ci lascia intendere? Semplice: nel fare questo prodigio, Gesù "spiega" e "annuncia" se stesso e in un certo qual modo anticipa quello che avverrà nell'ora estrema del supplizio della croce: Egli con la sua venuta nel mondo infatti inaugura la fine del vecchio sistema giudaico con la Legge dalle prescrizioni e decreti ( le giare d'acqua per la purificazione) e apporta la "novità" del Vangelo e pone se stesso come punto di riferimento per l'umanità, caratterizzandosi come gioia duratura per tutti (il vino). E sebbene Gesù sia capace di questi e altri prodigi, Egli tuttavia non vuole essere riconosciuto tramite espedienti soprannaturali da lui compiuti, bensì per mezzo della fede e dell'accoglienza della sua Parola (ecco perché il maestro di tavola è ignaro).
Nel manifestarsi in tal senso a Cana Gesù insomma non compie un gioco di prestigio per soddisfare i desideri dei commensali ma annuncia la novità del Regno di Dio e se stesso quale motivo di gioia per tutti, così come anticipa il Profeta Isaia quanto alla Prima Lettura di oggi che evoca la salvezza per Gerusalemme e la conseguente gioia e liberazione.
Di tutto questo Maria era convinta ed è per questo che non esita ad affermare: "Fate quello che vi dirà". Lungi dal volersi mostrare "fautrice di favori" verso i commensali, voleva piuttosto professare e dimostrare il carattere non terreno della missione del Cristo.
Stando così le cose, occorre concludere che chi aderisce a Cristo, appunto perché rinnovato e salvato viene a trovarsi nella nuova dimensione di gioia piena. Cristo, quale Figlio di Dio venuto a redimere il mondo e a debellare il malessere della peccaminosità, non può che essere riconosciuto come il "vino" della gioia, mentre il cristiano manifesta a tutti con il lieto vivere e con l'entusiasmo la propria appartenenza a Cristo e nulla accoglie di Questi sotto l'ottica del servilismo e della sottomissione passiva.
Quando il cristianesimo nei comandamenti, nelle percezioni e nelle disposizioni della Chiesa viene interpretato alla stregua di una coazione esterna non può che essere per chi lo professa un giogo dal peso esorbitante o un fardello irto di difficoltà e di costrizioni. Tale situazione non ci rende liberi, ma ci lascia soggiacere in dimensione di continua paura.
E' risaputo infatti che in linea generale non è il timore delle pene il carattere fondante della rettitudine dei nostri comportamenti, quanto piuttosto la presa di coscienza reale del giusto atteggiamento e la considerazione valutativa dei medesimi; ma questo diventa ancora più certo e indubitabile quando si tratti di professare la nostra fede in Gesù Cristo: è la considerazione di essere stati da lui salvati e redenti a dover spronare la nostra fede e la correttezza comportamentale nella prassi quotidiana ed l'atteggiamento più adeguato di conseguenza è quello della gioia e dell'esultanza, uniche prerogative della testimonianza dell'amore di Dio in Cristo per noi.


LA PAROLA SI FA' VITA
-Spunti per la riflessione-

--Quale giudizio ho attualmente verso i precetti e le disposizioni della Chiesa? Che cosa non riesco a condividere dell'Autorità Ecclesiastica, del Magistero, ecc?

--Con quale spirito, di fatto, sono solito adempiere a tali precetti/disposizioni? Con entusiasmo o per coazione esterna?

--Nelle comuni circostanze del mio quotidiano come gestisco il mio vivere cristiano in relazione agli altri? In quali occasioni?

--Nel rendere testimonianza della mia fede come mi atteggio in previsione di riluttanze, obiezioni, critiche ecc, da parte di terzi? In forza della mia gioia di essere cristiano sono coraggioso e disinvolto o mostro paura e titubanza?

--Quando mi si invita a prendere una decisione contraria alle mie convinzioni cristiane sono solito rifiutarla con coraggio apportandovi il mio diniego?
Se mi trovo a lavorare in contesti che mi costringono a scelte lontane dalla fede e dalla morale, mi adopero per "l'obiezione di coscienza" o almeno sono solito manifestare un segno di disapprovazione?