Omelia (22-04-2012) |
mons. Antonio Riboldi |
Perché siete tristi? Doveva davvero essere triste il cuore degli Apostoli, dopo la morte del Maestro. Avevano vissuto insieme, con quale animo è difficile immaginare. Avevano fatto un'esperienza unica con Gesù. Erano stati ammirati del suo parlare profetico, che prospettava una vita, il cui compimento era oltre questo pellegrinaggio terreno. Ma era per loro difficile, forse impossibile, anche solo pensare di poterlo rivedere Risorto. Non esisteva nessuna esperienza in proposito. Eppure, nello stesso tempo, era come se il loro cuore rifiutasse l'evidenza, 'sperando contro ogni speranza' che forse sarebbe accaduto davvero qualcosa che non era esperienza umana: la Resurrezione, appunto. È lo stesso sentimento che proviamo noi, ogni volta pensiamo al nostro futuro. Sappiamo che la nostra vita ha un termine qui, ma nello stesso tempo avvertiamo in noi 'un germe di eternità', la certezza, nella fede, che l'oggi è solo la vigilia di un domani senza fine. Che senso del resto avrebbe la vita, se non avesse un domani? È davvero vita quella che non ha prospettive nel futuro? C'è in tutti noi - sperando che nessuno sia vittima del materialismo, tutto ingolfato nel qui, considerato come un effimero passaggio senza sbocco - la consapevolezza che la vita va al di là di questa nostra esperienza terrena, dove tutto è provvisorio, che si sbriciola giorno per giorno per fare strada alla vera Vita che non ha fine, come il seme che pare disintegrarsi, ma per lasciare spazio al germoglio che lui è. Era il sentimento ambivalente che provavano gli Apostoli. Tristezza per il timore di essersi sbagliati e che tutto fosse finito, speranza che qualcosa di impensabile potesse accadere... Gesù non aveva forse più volte parlato della Sua Resurrezione? La Presenza di Gesù sulla terra era dovuta al grande amore del Padre, che voleva, tramite Suo Figlio, farci tornare al vero nostro essere, quello da Lui pensato, fin dall'origine del mondo: essere Suoi figli, tutti, ma proprio tutti, perché, anche se non ce ne accorgiamo, siamo a Lui cari come figli. Troppo spesso ci scordiamo della nostra origine divina. Prima che nascessimo nel seno di mamma, eravamo già esistenti nel Cuore di Dio, come veri figli, chiamati a stare con Lui e a partecipare del Suo Amore per l'eternità. Ma ci voleva la 'chiave' per riaprire la porta del Cielo: il Verbo di Dio Incarnato. Gesù come noi e per noi è il Dono che ha cancellato ogni traccia di peccato originale, quello che ci impediva di stare con Dio, di farci ritornare a essere completamente parte della Sua Famiglia in Cielo. Dovremmo sempre avere davanti agli occhi, nella mente e nel cuore, questa nostra fondamentale 'vocazione al Cielo' e su di essa impostare tutta la nostra esistenza quaggiù. I cristiani saggi vivono nell'attesa della visione di Dio e su questa certezza di fede impostano la vita, come si legge nella lettera a Diogneto, che risale ai primi tempi del Cristianesimo. Ne offro uno scorcio, che è la fotografia stupenda di come i nostri fratelli, e sicuramente anche gli Apostoli, dopo le loro incertezze e dubbi, ormai confermati nella fede dal Cristo Risorto, hanno saputo interpretare la vita. "I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi. Né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. Vivendo in città greche o barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri, partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è loro patria e ogni patria è straniera. Si sposano come tutti e generano figli. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano sulla terra, ma la loro cittadinanza è in Cielo. Obbediscono alle leggi stabilite e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti e da tutti sono perseguitati. Non sono conosciuti e vengono condannati. Sono uccisi e riprendono a vivere. Sono poveri e fanno ricchi molti. Mancano di tutto. Sono disprezzati e nel disprezzo hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. Facendo del bene vengono puniti come malfattori. Sono condannati e gioiscono ed è come se ricevessero vita". Questa è la profonda trasformazione che avviene negli uomini che credono e vivono la Resurrezione. Uno stile di vita difficile, anzi impossibile, se non si pone la speranza nel Risorto. Quella speranza che è mancata per un momento agli Apostoli, impauriti dalla morte di Gesù. Hanno vissuto quell'incertezza che è davvero l'oscurità dell'anima, che anche noi possiamo provare, quando per qualche dura prova della vita perdiamo la serenità e viviamo il dubbio che tutto sia illusione: una sofferenza che tutti, credo, seppur in forme forse diverse, abbiamo sperimentato. È la prova della nostra fede ed è in quei momenti che, a volte, si spalanca poi all'improvviso il Cielo di una gioia inattesa, come narra il Vangelo di oggi. "In quel tempo di due discepoli che erano ritornati da Emmaus narravano agli Undici ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto Gesù nello spezzare il pane. Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: 'Pace a voi!'. Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: 'Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate: un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che ho io'. Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: 'Avete qui qualche cosa da mangiare?'. Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. Poi disse: 'Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosé, nei Profeti e nei Salmi'. Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: 'Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni'. (Lc. 24, 35-48) Chi non si sente l'inferno addosso - se non si è spenta la voce della coscienza - ripensando ai nostri dubbi o, peggio, ai rifiuti dell'immenso amore con cui Dio ci circonda? Non siamo ancora in Cielo: lo dobbiamo 'conquistare'. È vero che il vivere è a volte un viaggio duro, pericoloso, ma non lo è più, se siamo sorretti dalla fede di chi cammina con e verso Gesù Risorto. Per questo stupisce e disorienta il rendersi conto di quanti, troppi, vivano come se il Cielo non ci fosse e, quindi, neppure una vita nuova dopo la morte. Eppure anche se vive in noi un solo briciolo di verità, non possiamo non sentire la nostalgia di un amore più grande, che non può avere casa quaggiù, dove, se siamo fortunati, possiamo al massimo godere di qualche sprazzo, che è come un raggio di sole, che si affaccia al mattino e scompare al tramonto. Basterebbe stare vicino a fratelli e sorelle che vivono con la nostalgia del Cielo - una nostalgia che li fa vivi, ma come in attesa di una Gioia completa - per scoprire davvero che cosa sia l'ansia di vedere Dio e, quindi, il Paradiso. Questa terra può solo, a volte, impaurirci, come è accaduto agli Apostoli dopo la Crocifissione del Maestro. Dobbiamo incontrare Gesù vivo, diventare testimoni della Resurrezione, sua e nostra. Dobbiamo lasciarci da Lui riempire il cuore di fede e di amore. Allora Gesù stesso ci mostrerà le Sue piaghe. Solo così, attraverso le Sue piaghe, potremo chinarci, senza paura, sui tanti crocifissi del nostro tempo: i poveri, i malati, i soli, gli emarginati, vedendo nelle piaghe dei nostri fratelli le piaghe stesse di Gesù, che è morto e risorto perché anche noi, tutti, risorgessimo. Scriveva don Tonino Bello: "Carissimi, coraggio! Irrompe la Pasqua. È il giorno dei macigni che rotolano via dall'imboccatura dei sepolcri. È il tripudio di una notizia che si temeva non potesse giungere più e che oggi corre di bocca in bocca, ricreando rapporti nuovi tra vecchi amici. È la festa di quanti si credono delusi della vita, ma nel cui cuore ora all'improvviso dilaga la speranza. Che sia anche la festa, in cui il traboccamento della comunione venga a lambire le sponde della nostra isola solitaria". (Tonino Bello) |