Omelia (29-04-2012)
padre Gian Franco Scarpitta
Risurrezione espressione e forza dell'amore

Dopo le apparizioni successive alla Risurrezione, eccoci a considerare uno degli effetti dello stesso Signore glorioso uscito dal sepolcro: il suo rapportarsi diretto con i suoi discepoli, il suo concedersi senza riserve a tutti, soprattutto agli esclusi e ai peccatori. Gesù è risuscitato non semplicemente per manifestare la sua gloria e la sua straordinaria potenza, ma per dischiuderci alla vita nella dimensione del Regno che si instaura sulla misericordia di Dio. E proprio l'amore è l'espressione della risurrezione. Di esso Gesù ci offre un saggio sia per via ministeriale sia per via diretta.
Nel primo caso, basta considerare quanto avviene alla porta Bella del tempio di Gerusalemme prima che Pietro pronunci il presente discorso di cui alla Lettura di oggi: la guarigione di un pezzente paralitico gettato a mendicare all'ingresso del monumento. Il fatto suscita scalpore e meraviglia in tutti gli astanti, ma in esso Pietro e Giovanni si rendono latori dell'amore del Risorto. Non c'è dubbio che il loro gesto non è un atto di pura compassione o di vacua filantropia: il loro intento è effettivamente quello di recare la novità assoluta della rivelazione di Dio in Cristo fondata sulla misericordia e sull'amore. Prova ne sia il fatto che a differenza di quanto avviene anche oggigiorno nei casi simili, si rivolgono essi stessi allo storpio mendico, che probabilmente in quel momento è distratto: "Guarda verso di noi". Ciò non con l'intento di porgergli del denaro, ma di comunicargli la potenza innovativa del Signore Gesù Cristo nella sua vita. Nel nome di Gesù Cristo, che i Giudei hanno appeso sulla croce e che Dio ha risuscitato dai morti, quel paralitico ottiene la guarigione fisica e contestualmente anche la salvezza e la vita nuova nel Signore stesso Risorto. L'episodio suscita l'ira e lo sdegno del sommo sacerdote e di altre autorità giudaiche, ma offre l'occasione di annunciare la vittoria di Cristo sulla morte e il fondamento irrinunciabile della nostra fede che coinvolge anche gli astanti miscredenti, cioè la morte e la risurrezione del Dio fatto uomo. Ma soprattutto, come prima si diceva, offre l'occasione perché in questo storpio risanato si manifestino le grandi opere di Dio nel suo Figlio e si riveli il Dio d'amore e di misericordia. Cristo è risuscitato per la vita di tutti. Non si avrà mai, però, vita piena e reale quando questa non sia contrassegnata dall'amore libero, immotivato e disinvolto. Chi ama intensamente e senza riserve indubbiamente vive davvero; chi manca all'amore manca all'appuntamento con la vita a scapito di se stesso. L'amore di Cristo Risorto si distingue per la sollecitudine, la premura e la coerenza con le sue aspettative e ora si concretizza in un gesto concreto esaltante e allusivo. La risurrezione, scrive Ratzinger è "l'essere più forte dell'amore sulla morte", e questa forza si esprime nell'umiltà degli atti di misericordia che ne rendono testimoninanza, come quello della guarigione di uno storpio, ma che potrebbero anche riguardare, ai nostri giorni, la vicinanza di Gesù nei confronti dei poveri, dei perseguitati, dei sofferenti che lui stesso non cessa di rendere oggetto d'amore per mezzo nostro.
Tuttavia il Risorto ci ragguaglia di un altro aspetto dell'amore misericordioso che è quello della sollecitudine del pastore. Come osserva Anselm Grun la figura del pastore sollecito non è esclusivamente biblica: presso la cultura greca vi era la figura del mandriano del gregge capace di sollevare le proprie pecore sulle spalle e di proteggerle. Anche Orfeo veniva identificato con il pastore atto a curare il gregge nel proprio recinto. La cristianità greca primitiva associava infatti Orfeo a Cristo buon pastore. Tuttavia la sollecitudine pastorale di Cristo scaturisce dall'amore del Padre di cui egli vuol partecipare tutti, dell'amore disinteressato, immotivato, libero per il quale egli stesso si è reso pecora, anzi Agnello immolato e questa idea è patrimonio esclusivo della nostra fede. Perché appunto è stato immolato per i nostri peccati, egli può rendersi il nostro Pastore e solamente in ragione del suo essere stato Vittima sacrificale ora può condividere precarietà e debolezze delle proprie pecorelle a lui affidate. E soprattutto perché a questa oblazione di sofferenza e di morte ha fatto seguito la Risurrezione.
Già in Ezechiele (cap 34) Dio rimprovera i capi d'Israele per non aver mostrato sollecitudine verso le pecore del Signore, promettendo che sarà Lui stesso ad occuparsi del proprio gregge perché non vada disperso fra le montagne e non sia preda dei lupi rapaci. Gli fanno eco Isaia e il Salmo 23 e adesso tale promessa viene mantenuta e dispiegata nella persona del Verbo Incarnato Gesù Cristo, il Figlio di Dio che diventa Signore a partire dal patibolo della croce nel quale mostra la massima espressione dell'amore del Padre, che è la vera rivelazione.
A buon diritto dunque Gesù può proporsi a noi come il pastore premuroso che conosce ciascuna delle sue pecorelle. Il che significa espressamente: nulla che riguardi le sue pecorelle gli è estraneo, nulla di noi gli è oscuro o gli è insignificante, neppure il dolore e la sofferenza o quanto altro possa interessare la nostra vita. Come già diceva il Salmista, a Gesù buon pastore sono note tutte le nostre vie, poiché egli ci scruta e ci conosce (Sal 138) e inoltre sa benissimo cosa c'è nel cuore dell'uomo (Gv 2, 25). Di conseguenza a Gesù non è estranea neppure qualsiasi possibilità di intervento atto a favorirci e a guidarci verso la vita e la salvezza e il suo interessamento nei nostri riguardi assume connotati di concretezza e di solerzia che solo l'amore vero e immotivato può giustificare. L'amore appunto che ha vinto la croce e che supera anche le nostre croci. Lo stesso che è diretto anche alle pecore disperse di altri ovili e che tende a racchiudere nel suo ambito di salvezza l'universalità del genere umano. L'amore, insomma che non conosce confini o limitazioni territoriali ma che si estende a tutti i popoli e a tutte le nazioni.
"E le mie pecore conoscono me." Alla premura del pastore non può che corrispondere la fiducia incondizionata delle pecore e la loro sensibilità a lasciarsi guidare e condurre senza riserve, fiduciosi in Colui che ci ha amati per primo e che ha speso tutto se stesso per il nostro riscatto, rincuorati e motivati alla confidenza e all'apertura nei suoi confronti si esprime nella preghiera, nella vita sacramentale, nella comunità ecclesiale e nella medesima dinamica di amore che ci sprona ad uscire da noi stessi per donarci agli altri con la stessa franchezza del Risorto