Omelia (29-04-2012)
Giovani Missioitalia
Il Pastore scalzo

Il Buon Pastore è un'immagine incompleta di Gesù, così come lo è quella di Gesù regnante sul trono divino, seduto alla destra del Padre. Il Vangelo ci offre sempre un'indissolubile congiunzione tra il "Pastore" e l' "Agnello", tra il "Re" e il "Servo". Non c'è nulla di contraddittorio in questa visione, perché ciò che unisce le immagini in apparenza contrapposte, è l'amore per il prossimo, la capacità di dare la propria vita per la fedeltà al Vangelo, i cui destinatari privilegiati e prioritari sono i poveri e quanti sono nella sofferenza.
Nell'esperienza africana che come coppia e famiglia abbiamo avuto il privilegio di vivere per alcuni anni, diversamente da come l'avevamo immaginato venendo dal nostro mondo urbanizzato dove gli animali sono sorvegliati anche con l'ausilio di marchingegni elettronici, il pastore ci si è presentato davanti come un ragazzino scalzo e coperto da indumenti consunti. Lungi dall'essere proprietario anche di una sola delle pecore in sua custodia, il pastore, nei lunghi e freddi giorni di pioggia che percuote la fertile terra degli altipiani etiopici, si ripara sotto minuscole stuoie di paglia, rimanendo fedelmente vicino al suo gregge. Nella maggior parte dei casi, per il pastore non è necessario contare le proprie pecore, perché già le conosce una per una. Anche in tempi recenti, soprattutto nel contesto rurale, risulta in qualche modo offensivo chiedere il numero dei componenti di una famiglia e persino di una comunità ecclesiale: "le persone non sono pecore che si possono identificare con un semplice dato numerico!", questa sarebbe la risposta del padre di famiglia così come lo è stata quella data dal sapiente e saggio arcivescovo di Addis Abeba (1977-1998), cardinale Paulos Tzadua (deceduto nel 2003), al giornalista che gli chiedeva di fornirgli dati precisi sul numero dei fedeli cattolici presenti in Etiopia. Allora, l'affidabilità del pastore sta proprio nella capacità di riconoscere e condurre le sue pecore, mostrando disponibilità ed entusiasmo nell'accogliere sempre nuove pecore nel proprio gregge, ben sapendo che più sono numerose e più vengono messe in pericolo dalla presenza di iene e sciacalli. Contro questi "lupi" il pastore non ha armi potenti da impiegare - infatti, a un ragazzino non sono concessi né lancia né tantomeno fucile -, ma deve far valere tutta la sua forza dissuasiva e deterrente che deriva dall'attaccamento a ciascuna delle sue pecore, fino al punto di mettere a repentaglio la sua stessa vita pur di proteggere il gregge. E proprio in questa spontanea, totale dedizione al proprio gregge il pastore si distingue dal semplice mercenario, che segue le pecore per condurle al mercato, come farebbe con qualsiasi altro prodotto commerciale. In quella porzione d'Africa abbiamo conosciuto pastori capaci di spiegare con la propria vita, tanto i giovinetti che all'alba e a piedi scalzi lungo sentieri di pietre taglienti conducono il gregge verso il pascolo, quanto gli ordinati alla guida della comunità cristiana, il significato della parabola del Buon Pastore, che nel dono della vita per il prossimo ha dato la speranza di risurrezione.



Il commento è di Anita Cervi e Beppe Magri, missionari in una parrocchia della Diocesi di Verona.