Omelia (06-05-2012)
Omelie.org - autori vari


COMMENTO ALLE LETTURE
a cura delle Clarisse di Città della Pieve

"In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto" (Gv 15,8a): Dio attende da noi un frutto. In questo sta la sua gloria: nel frutto che noi possiamo e dobbiamo portare. S. Ireneo di Lione lo dice con altre parole: "La gloria di Dio è l'uomo vivente". Il concetto è lo stesso: un uomo vive, vive veramente, quando la sua vita è feconda di frutti.
Stiamo ancora celebrando il tempo pasquale, che è per eccellenza il tempo della vita, perché Gesù ha vinto la morte e ci ha donato l'accesso alla vita nuova e definitiva, quella vita che più non muore. Le porte della vita adesso sono spalancate per tutti, Gesù è morto ed è risorto per questo: per fare di noi un popolo di "viventi", perché di questo il Padre si compiace e in questo trova la sua gloria. Ma varcare le porte della vita sta a noi, dipende dalla nostra libera volontà, perché l'"uomo vivente" di cui parla Ireneo è l'uomo che liberamente sceglie e liberamente decide cosa fare di se stesso.
Allora: la nostra vita è davvero viva solo se portiamo frutto, quel frutto che solo dà gloria a Dio, e quel frutto dipende da noi. Il Padre, da esperto vignaiolo, cura la sua vigna con intenso e tenero amore e tutto predispone perché porti frutto. La vite è Gesù, che ha già portato il suo frutto, in abbondanza e per l'eternità: la vite è infatti rigogliosa di tralci. I tralci siamo noi, e ora a noi è chiesto di portare frutto, pena il nostro essere tagliati, il nostro inaridire e seccarsi, fino ad essere bruciati come sterpaglia inutile.
Per non finire così, chiediamoci quale può essere il frutto che dobbiamo portare e come fare a portarlo. Non è un discorso da poco, perché c'è di mezzo la vita eterna, quella vita che inizia fin d'ora e durerà per gli infiniti secoli, quella vita in cui è il segreto della gioia, della pace, della luce... tutto ciò che continuiamo affannosamente a cercare: la Pasqua ce lo ha regalato, la Pentecoste ce lo confermerà, a noi però sta il viverlo.
Quale il frutto?
Ci viene in aiuto S. Giovanni, non solo nel brano della sua prima lettera che oggi è proposto alla nostra meditazione, ma in tutto il suo insegnamento: il frutto è l'amore. E un amore concreto, visibile: non costruito attraverso discorsi, attraverso il risuonare di parole vuote, ma attraverso fatti. Saranno i fatti a garantire la verità del nostro essere tralcio vivo e fecondo, saranno i fatti a rassicurare anche noi stessi, il nostro cuore, e a fugare ogni scrupolo di coscienza.
Il nostro Dio è un Dio concreto, la Pasqua che stiamo celebrando ce lo dimostra con evidenza: Gesù non ci ha amato a parole, ma attraverso il fatto più concreto e certo che si potesse immaginare. Una mistica francescana del XIII secolo, la beata Angela da Foligno, riceve questa parola da Gesù: "Non ti ho amato per scherzo". Amare nei fatti significa accettare di sacrificarsi per amore, di donare ciò che abbiamo di più prezioso: tempo, energie, beni, doni di grazia e di natura, affetti... tutto mettere a disposizione del fratello, fino al punto di mettere in gioco per lui anche la propria vita. Paradossalmente, la nostra vita è veramente viva quando accetta di morire per amore, come ci ricorda Gesù stesso: "Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna" (Gv 12,25).
E ancora: "Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto" (Gv 12,24). Ecco il frutto. Quello stesso frutto di cui ci parla la prima lettura di oggi, il frutto che porta Paolo quando comincia a muoversi a Gerusalemme predicando nel Nome di Gesù, fino al punto che "tentavano di ucciderlo" (At 9,29b). E' significativo che poco più oltre Luca ci parli di una Chiesa che era in pace, confortata dallo Spirito, rigogliosa di frutti (cf. At 9,31): certo, questo era possibile perché c'era chi non esitava a mettere in gioco la propria vita per amore...
Come portare frutto?
Anche qui ci viene in aiuto S. Giovanni: "Chi rimane in me e io in Lui, porta molto frutto" (Gv 15,5b). Per portare frutto ci vuole fede, perché questo significa "rimanere": restare in un'adesione di fede sincera e profonda, ancorati alla persona del Signore Gesù, "vera vite", da cui sola possiamo ricevere la linfa per vivere. Concretamente: custodire in noi il suo esempio e il suo insegnamento, fare del vangelo la nostra "regola e vita", come prescrive ai suoi frati Francesco d'Assisi in apertura alla sua Regola. Anche la fede deve essere concreta, come ci ricorda Gesù stesso nel discorso di Cafarnao. Alla folla che chiede: "Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio", egli risponde con chiarezza: "Questa è l'opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato" (cf. Gv 6,28-29).
La fede è dunque un fatto, è l'opera prima, da cui tutte le altre opere scaturiscono. L'amore stesso nasce dalla fede: chi si è trovato ad amare in situazioni difficili, ostili; chi ha dovuto vivere quella parola tanto esigente del vangelo che ci chiede di amare coloro che ci perseguitano, accusano, incolpano, calunniano, di amare insomma i nemici (cf. Mt 5,44), sa bene che non si può amare senza fede. Perché la fede ci attacca stabilmente a Colui che è lo stesso Amore, a Gesù, da cui attingere l'amore da riversare intorno a noi, quell'amore che da noi stessi non saremmo capaci di donare. Davvero senza di Lui non possiamo far nulla (cf. Gv 15,5b).
E le potature? Sono solo un intervento della sapienza del Padre, che vuole che portiamo molto frutto, come si diceva, perché in questo trova la sua gloria; le potature sono un suo dono d'amore. Certo, sono tagli e i tagli fanno male: quando si viene potati si avverte tutto il dramma di una sofferenza. Anche questo è il momento della fede: se viene potato un tralcio sterile, meglio così; se viene potato un tralcio fecondo, è per una vita più piena. Di fatto, il male è solo momentaneo, transitorio, la sensazione di morte è destinata a passare: ogni taglio è per la vita!
E spesso è solo il tempo che ci rivela la natura di quel tralcio che è sparito, solo a posteriori capiremo se il tralcio era sterile o fecondo. Il momento della potatura è quello della semplice fede, fede nella sapienza del Padre che, da buon vignaiolo, sa bene come intervenire sulla pianta per renderla ancora più viva e rigogliosa.
"In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli" (Gv 15,8). Amore e fede ci abilitano infine ad essere riconosciuti da Gesù come suoi veri discepoli. Prima dell'ultima cena con i suoi Gesù ci ha lasciato il comandamento nuovo, il comandamento per eccellenza: "Se io, il Signore e Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi" (Gv 13,14-15). Lavare i piedi del fratello è un gesto d'amore, quell'amore che richiede fede. In questo sta la nostra vita di cristiani, la nostra vita di risorti. In questo sta la vita vera per noi e la gloria del Padre.