Omelia (06-05-2012) |
don Luciano Cantini |
Il frutto del rimanere Io sono la vite, voi i tralci. Siamo nel lungo discorso di addio durante l'ultima cena; Gesù racconta la sua persona, la profondità del rapporto con il Padre suo e il rapporto con i suoi discepoli. Gesù mostra la sua identità, ma anche rivela i discepoli a se stessi. Nella relazione tra lui e il Padre e nella relazione dei discepoli con lui si concretizza il mistero della salvezza. La vite vera è il vero albero della vita che il Padre Agricoltore ha piantato nella storia degli uomini; l'uomo nel Giardino non poteva gustarne, ora ne è intimamente legato e chiamato a darne il frutto. In questo è la sua glorificazione. Forse non abbiamo una idea corretta della Gloria di Dio, l'abbiamo raffigurata nei nostri templi fatta di ori, luci e cori angelici, eppure "La gloria di Dio è l'uomo vivente" (S. Ireneo): è l'uomo chiamato a portare molto frutto. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. L'intervento dell'Agricoltore è necessario perché il frutto sia abbondante. Questa è l'opera del Padre, lui conosce i tralci e sa come e dove mondarli, non è compito nostro. Non siamo chiamati a mortificarci o mortificare gli altri, non siamo chiamati ad arrampicarci in percorsi di elevazione spirituale, nella storia si realizza l'azione di Dio che ci monda, ci pensa lui e sa come fare. La Parola che ci è annunciata, essa stessa ha l'effetto della potatura, ha lo scopo di rafforzare l'intima unione con il tronco. Il frutto è dunque anche frutto dell'intimità con il Signore. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. La parola "rimanere", che Giovanni qui ripete dieci volte, sembra quasi avere una dimensione statica, sembra comunicarci il senso della stabilità, tentazione a cui ogni religione tende il fianco e, storicamente, il cristianesimo non ne è immune. La relazione con Cristo, invece, è conseguenza della dinamica della Parola, che opera nel discepolo e lo spinge a seguire Lui. Senza questa dinamica relazionale il discepolo rimane solo (Gv. 12,24), il suo tralcio si inaridisce e non dà frutto. Rimanere nella Parola realizza una comunione tale con il Figlio e il Padre che possiamo chiedere qualsiasi cosa e l'amore del Padre che ci precede lo farà: è il mistero dell'obbedienza di Cristo al Padre che amano dello stesso amore che ci raggiunge e ci coinvolge. Diventare discepoli è rimanere nella vita stessa del Signore e condividerne la missione. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli La giustizia, la pace, la fraternità, l'amore... sembrano essere i frutti della vita cristiana, ma questa lettura moralistica non corrisponde all'esempio parabolico che Giovanni racconta. Il Frutto, al singolare, è prodotto sinergico dell'opera di Dio che toglie e purifica e la permanenza dell'uomo nella Parola che gli è stata annunziata. Il tralcio ben innestato nella vite si prolunga nella storia, attraversa lo spazio per "portare" l'unico Frutto possibile che è lo stesso Signore Gesù. Per ben sette volte Giovanni ripete l'espressione "portare Frutto", questa è la missione del discepolo che Gesù consegna ai suoi prima di lasciare questo mondo. Più avanti dirà in modo esplicito (15,16): "Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga". |