Omelia (06-05-2012) |
don Alberto Brignoli |
Rimanete in me Ci stiamo avviando, lentamente ma in maniera decisa, verso la conclusione del Tempo di Pasqua, durante il quale stiamo gustando la presenza del Signore Risorto in mezzo ai suoi discepoli, in mezzo alla Chiesa nascente che lo annuncia vivo e presente nel mondo. Quando il Tempo di Pasqua terminerà, con la Pentecoste inizierà il Tempo della Chiesa, il tempo in cui, nell'ordinarietà e nella ferialità degli eventi, saremo chiamati a fare memoria della prima Comunità dei credenti che cammina senza più la presenza del Cristo risorto e vivo in mezzo agli uomini. È questo il motivo per cui, in queste due domeniche, la Liturgia della Parola ci presenta la lettura di due testi tratti dal capitolo 15 del Vangelo di Giovanni, che a ragione può essere considerato parte dei discorsi di addio di Gesù ai suoi discepoli, quelli pronunciati durante l'ultima cena, e a cui Giovanni dedica quasi un quarto del suo Vangelo! In modo particolare, questo capitolo 15 è ricordato ed è famoso per la similitudine, potremmo dire la parabola, della vite e dei tralci. Giovanni non inventa nulla di assolutamente nuovo: più volte i testi dell'Antico Testamento, nella tradizione profetica, paragonano il popolo d'Israele a una vigna che è proprietà di Dio, il quale la custodisce e se ne prende cura con gelosia, anche quando - e non è infrequente, purtroppo - i frutti sperati non arrivano e di quel poco che produce "ogni viandante ne fa vendemmia". Quello che è nuovo in Giovanni è una cosa che apparentemente può sembrare senza significato; ovvero, che rispetto alla tradizione veterotestamentaria Giovanni mette in bocca a Gesù una similitudine non basata sul rapporto "vigna-vignaiolo" (abbinato invece all'amore geloso di Dio verso il suo popolo) come simbolo del rapporto suo con i propri discepoli, ma su un rapporto ancora più forte, più immediato, più stretto, quello tra la vite e i tralci, tra l'albero e il frutto, tra il fusto che trasmette la linfa vitale e il grappolo che pende fruttuoso dal fusto. Nella vigna d'Israele, certamente più ampia, poteva entrare ogni viandante a far vendemmia e soprattutto si potevano piantare molte altre coltivazioni; la vite di cui Gesù ci definisce tralci è invece il puro albero da frutto, al di fuori del quale è assolutamente impossibile essere produttivi. Che cosa significa questo? Sta a significare fondamentalmente il legame stretto, indissolubile, assoluto che esiste tra il Maestro e noi suoi discepoli: senza di lui, senza fare riferimento esclusivamente e Gesù Cristo, "non possiamo dare frutto". Serviamo solo a essere gettati via, tagliati da lui. Ma "tagliati" lo siamo pure nel caso in cui portiamo frutto, però attraverso il metodo della potatura, che sa dove tagliare perché quanto prodotto possa essere ancor migliore in futuro. In definitiva, sembra dire Giovanni, o c'è comunione tra noi e il Maestro e tra noi stessi nella comunità dei credenti, o la nostra fede è inutile e improduttiva. Non ci si salva se non all'interno di una comunità; non si può sperare minimamente in un successo delle nostre attività pastorali se non perché siamo parte di una parrocchia, di una Chiesa locale, di un gruppo di persone che credono nella stessa fede. Questo non è affatto una dichiarazione di esclusivismo, di elite, di pastorale "del gruppetto" ("Basta che stiamo bene noi insieme, nel nome di Gesù, e il resto non importa", sembrano dire molti gruppi di credenti nelle più disparate esperienze religiose ecclesiali): è invece quello che ci viene detto e proposto dalla Chiesa degli Atti degli Apostoli, le cui gesta ci stanno accompagnando in questo Tempo Pasquale e di cui abbiamo ascoltato un bellissimo esempio anche nella prima delle letture di oggi. Quella degli Atti è una Chiesa ben cosciente di avere un centro che ne rappresenta l'unità (la Chiesa di Gerusalemme), ma non per questo tralascia le periferie. In effetti, la prima preoccupazione di Paolo e Barnaba è di fare in modo che la comunità di Gerusalemme, che aveva conosciuto Paolo per altri motivi, non certo rassicuranti visto che era stato un convinto persecutore della Chiesa nascente, potesse rendersi conto della verità della sua conversione. Ecco allora l'urgenza di recarsi a Gerusalemme a farsi conoscere dalla comunità originale. Da lì, Paolo e Barnaba partiranno poi per annunciare il Vangelo in altre città e fondare nuove comunità di credenti. Quello che è più interessante, però, è che la diffusione del Vangelo inizialmente non avviene per via di una definita strategia: ossia, dopo la Pentecoste, gli apostoli non si sono seduti a tavolino a fare una "programmazione pastorale" per dire dove si sarebbero recati ad annunciare il vangelo. Anzi: tutto questo avviene per un motivo completamente opposto, ovvero per via della persecuzione. A volte, è una persecuzione esterna alla Chiesa, condotta da parte dei pii ebrei nei confronti di questa nuova "setta" (com'erano visti i cristiani) che minava alla base l'unità della fede giudaica; in altre occasioni, la "persecuzione" è interna alla stessa comunità dei credenti. È appunto il caso di Paolo, che subisce contrasti all'interno della comunità dei discepoli perché non credono ancora che egli fosse passato dalla parte del vangelo. Egli si ferma nella comunità di Gerusalemme, ma a causa delle discussioni che ne sorgono con un gruppo di discepoli, per evitargli problemi ulteriori viene fatto fuggire e viene nascosto nella sua città natale di Tarso. Lì poi Barnaba andrà a cercarlo per portarlo con sé ad Antiochia e nelle altre città destinazione dei loro numerosi e avventurosi viaggi. Anche questa situazione, di apparente contrasto, non impedisce tuttavia al Vangelo di diffondersi e alla Chiesa di crescere numericamente. Come può avvenire questo, che ha tutta l'apparenza di qualcosa di miracoloso o comunque d'incomprensibile? Avviene nella misura in cui i discepoli rimangono uniti tra di loro, uniti a Cristo e convinti di non essere loro i protagonisti della missione. Non sono loro che fanno in modo che la vigna dia frutto: "Senza di me non potete far nulla", ribadisce il Signore nel vangelo che abbiamo ascoltato. Insomma, nella Chiesa c'è poco da fare: tutto è opera di Dio. Quando qualcosa ha la pretesa di essere realizzato in base alle scelte e ai progetti degli uomini, crolla, anche se è frutto della miglior programmazione e della miglior attività pastorale. Quando un'attività, sia pur in modo incomprensibile e attraverso forme, situazioni, realtà e persone alle quali non daremmo mai credito, si realizza, si espande e cresce, è decisamente il caso di dire che questa è opera dello Spirito. "Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto": anche l'impensabile e l'incomprensibile possono farsi realtà, in una comunità di credenti che rimane unita come il frutto al suo albero, come il grappolo alla vite. |