Omelia (06-05-2012)
Ileana Mortari - rito romano
Rimanete in me e io in voi

Ispirandosi al genere letterario dei "discorsi di addio" e utilizzando alcune tradizioni degli "addii di Gesù", Giovanni ha composto nei capitoli 13-17 del suo vangelo un lungo discorso che il Nazareno pronuncia prima di affrontare la sua "ora", rivolgendosi esclusivamente ai discepoli, che rappresentano i credenti di ogni tempo, e quindi anche ciascuno di noi.

Queste pagine sono di una profondità e ricchezza senza paragoni, anche nello stesso quarto evangelo, e giustamente sono state definite il "testamento spirituale" di Gesù, imperniato su argomenti fondamentali, quali: il tema dell'amore-agape, ricondotto alla sua origine, che è la Trinità; la condizione del cristiano nel mondo, in particolare la persecuzione, ma anche il sostegno e la consolazione di Gesù; il dono e l'opera dello Spirito Santo; la preghiera di Gesù per la glorificazione del Padre, per i discepoli, per la Chiesa.

La pericope che ci interessa inizia con una della grandi autorivelazioni di Gesù: "Io sono la vera vite", che richiama immediatamente al lettore biblico l'immagine della vigna, assai frequente nell'Antico Testamento. Riprodotta in bassorilievi di bronzo anche sui portali del tempio di Gerusalemme, la vite simboleggiava il popolo di Israele.

Così i profeti Isaia, Geremia, Osea, Ezechiele paragonano gli Israeliti a una vigna che Jahvè ha circondato di amorevoli cure, ma che non ha dato frutti, o ha dato uva selvatica, frutti cattivi: fuor di metafora, sono la mancanza di fedeltà, la menzogna, l'ingiustizia, lo sfruttamento, l'inimicizia reciproca; in sostanza: il distacco da Dio e l'offesa del prossimo.

Il Primo Testamento termina tuttavia con una voce di speranza, con una preghiera accorata e fiduciosa: "Dio degli eserciti, volgiti, guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi il ceppo che la tua destra ha piantato, il germoglio che ti sei coltivato" (Salmo 80, vv.15-16).

Ora, "Io sono la vera vite" (Giov.15,1) sembra proprio una risposta alla preghiera del salmista: Gesù è quel "germoglio", quel "virgulto" che Isaia aveva preannunciato come il Messia (cfr. Isaia 11,1); ed è solo in Lui che il Padre ha finalmente trovato la risposta e l'amore che si attendeva dal suo popolo.

Nell'allegoria giovannea della vite compaiono poi i "tralci", che designano i discepoli; analogamente ai rami naturali, solo se ben innestati nella vite-Gesù, anch'essi possono produrre quei frutti che Jahvè "il vignaiolo" si aspettava dal suo popolo: fedeltà e rispetto verso Dio, giustizia e amore verso il prossimo; in sintesi: la fedele osservanza dell'alleanza.

"Rimanete in me e io in voi", dice più volte Gesù e specifica: "Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla" (v.5)

"Rimanere" (e il suo sinonimo "dimorare") è un verbo particolarmente caro a Giovanni, che lo usa più volte, nella forma reciproca vista sopra ("chi rimane in me e io in lui"), per indicare la mutua immanenza, cioè la comunione che esiste anzitutto e in maniera perfetta tra il Figlio e il Padre ("Io sono nel Padre e il Padre è in me" Giov.14,10 e 11) e poi tra il Figlio e il discepolo.

"Alla pallida spiritualità di molti cristiani che sentono la loro religiosità come un obbligo o come un mantello esterno, Gesù oppone la religione della comunione interiore, della vivacità, dell'amore, dell'adesione gioiosa" (G.Ravasi)

Ma, in concreto, che cosa vuol dire per il credente "rimanere" in Gesù?

Un primo elemento ci è offerto dal brano stesso: "Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi....." (v.7). Gesù è il Verbo, cioè la Parola, incarnato; nel suo ministero ha fatto dono del suo insegnamento ai discepoli, che - come dice sempre il brano al v.3 - sono dunque già "mondi" per la parola che Gesù ha loro annunziato e quindi non hanno bisogno di essere "potati" per portare frutto. Allo stesso modo, anche noi dobbiamo fare dell'ascolto della Parola una nostra dimensione quotidiana.

In secondo luogo si può cogliere un chiaro rimando ad un altro passo del quarto vangelo che descrive la mutua immanenza: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui" (Giov.6,56): l'Eucarestia è certamente il dono più grande che Gesù ci ha fatto, perché è il dono di Sé stesso ai suoi, affinché abbiano la "vita eterna" (cfr.6,54), cioè la vita divina.

Parola ed Eucarestia sono le due "mense" cui ci accostiamo in ogni celebrazione eucaristica, ricevendo un dono così grande che va custodito e soprattutto contemplato e meditato a lungo, perché sia assimilato in noi, come la linfa' che dalla vite passa ai tralci: e questo ci è possibile nell'adorazione dell'Eucarestia stessa, specialmente in questo tempo pasquale, collocato tra la Pasqua e l'Ascensione, tempo in cui Gesù "si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio" (Atti 1,3)

Se il discepolo rimane in Gesù attraverso la fede, la preghiera e l'amore, allora anche Gesù rimane in lui con il suo amore e la sua fecondità; e allora sarà anche possibile "portare frutto", anzi "molto frutto", cioè rivelare e testimoniare l'amore di Cristo che è in noi attraverso il nostro stupore, l'accoglienza reciproca, la passione di amare e servire, la gioiosa consapevolezza di essere Chiesa, il "nuovo popolo" di Dio, fruttifero perché innestato come i tralci sulla "vite-Gesù".

"E in questo - conclude il brano -è glorificato il Padre mio" (v.8): la gloria di Dio, la sua felicità, la gioia che Lui prova per noi è vederci sempre più simili a Gesù.