Omelia (20-05-2012)
mons. Antonio Riboldi
Gesù ascende al cielo dove ci attende

Leggendo il Vangelo, si ha l'impressione che Gesù non voglia lasciare i suoi apostoli, che tanto amava e che presto avrebbe inviato, dopo la Pentecoste, a fare le sue veci tra di noi, con la sua stessa potenza. D'altra parte Gesù aveva condiviso tutta la sua vita con loro, accettandone anche la debolezza, i loro dubbi, le loro contraddizioni - evidenti nel momento più tragico della sua passione e crocifissione.
Li conosceva fino in fondo e li amava totalmente, pur sapendo che erano 'poveri uomini', come noi del resto, animati magari da tanta buona volontà, ma che poi, nel momento della prova, mostriamo tutta la nostra debolezza e davvero poco o nulla possiamo o sappiamo fare senza la Sua Grazia.
Per Gesù, Figlio dell'Uomo, Risorto, era giunto il momento di lasciarli, ma non da soli.
Avrebbe mandato il Suo Spirito, con la Pentecoste, perché potessero continuare la sua opera tra di noi, fino alla fine del mondo, trasformandoli in intrepidi Suoi Apostoli.
Un cambiamento incredibile, che ci lascia esterrefatti, pur sapendo che anche per ciascuno di noi, con la Cresima, tale trasformazione consapevole dovrebbe verificarsi, poiché Dio stesso pone a nostro 'servizio' la Sua Potenza di amore misericordioso.
L'Ascensione è così accennata negli Atti degli Apostoli: "Nel mio primo libro - così inizia S. Luca, riferendosi al suo Vangelo - ho già trattato, Teofilo, di tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio fino al giorno in cui, dopo avere dato istruzione agli apostoli, che si era scelto nello Spirito Santo, egli fu assunto in cielo. (Atti Apostoli 1,1)
Sappiamo che gli Apostoli erano stati scelti per essere testimoni della Resurrezione del Maestro: un Evento talmente straordinario da superare qualsiasi attesa umana, un Evento unico, che contiene ogni certezza e speranza e si pone come pilastro per ogni serenità nostra, sempre incerti sulla ragione del dono della vita, che sentiamo non può finire qui, ma deve avere uno sbocco altro ed oltre.
Che uno di noi muoia, per quanto la sua morte sia eccezionale o sia tale l'uomo stesso che muore, non è certamente un fatto da sconvolgere l'umanità, a meno che si tratti di una persona che si è talmente distinta nella vita, da diventare un punto di riferimento ed un invito ad alzare la testa, come è la vita dei Santi.
Una vita come, per esempio, quella di Papa Giovanni Paolo II.
Ricordo che nei giorni della sua agonia e più ancora il giorno della sua morte, l'intera umanità fu come scossa. Tutti ci sentimmo più orfani, privati di una figura che tracciava, come sanno fare solo i Santi, la vera via della Vita: un padre che dava la certezza che vi è altro, al di là dei dubbi e difficoltà che affollano la vita qui.
Ma diversa la sorte di Gesù. Lui era il Figlio di Dio: un Figlio che ha voluto liberamente, fino in fondo, 'sporcarsi le mani' nella fragilità e nella debolezza di noi, povere creature.
Una fragilità che sembrò avesse letteralmente stritolato Gesù con la passione e la crocifissione. Davvero Gesù, sulla croce, era l'immagine di tante nostre impotenze e dunque quale stupore avrebbe potuto esserci?
Ma poi venne annunciata la ragione di quella fine ingloriosa: l'Evento che davvero cambiava la storia dell'intera umanità e dovrebbe cambiare la nostra stessa esistenza, la Sua e nostra Resurrezione.
Ecco allora che davvero possiamo lasciarci pervadere, dopo il dubbio e l'incredulità, dalla meraviglia, dallo stupore, dalla fiducia e dalla gioia.
Lo stesso cammino che, dopo la Resurrezione, per 40 giorni, gli Apostoli compiono con Gesù, che si concede loro, per accompagnarli alla comunione piena con Lui. Sono giorni in cui è evidente che Egli voglia mostrare loro, ed a noi, che la vita ha sì una fase di passaggio su questa terra, come fu per Lui, con momenti di gioia e profondi momenti di dolore, ma tutto per aprire la porta al divino, a cui siamo chiamati, per sempre.
Noi, purtroppo, siamo troppo abituati a fermarci al 'ritaglio di vità quaggiù, e poche volte ci fermiamo a contemplare il nostro vero destino, alzando gli occhi al Cielo, che si stende all'infinito, come due braccia aperte, che attendono di accoglierci, e, non sapendo 'vedere i cieli aperti' ci lasciamo confondere dal buio senza futuro di questa nostra misera terra.
Questo bisogno di Cielo è il forte desiderio che sento ogni volta mi reco a Lourdes, al momento serale della processione con le candele. Si vive davvero l'impressione di una moltitudine che aspira ad ascendere al Cielo, che avverte nel profondo del proprio essere, come la vera Patria da abitare per sempre, in una gioia senza fine, senza più le fatiche di qui, sia proprio il Cielo.
È il mandato che Gesù lascia ai Suoi e quindi a tutti noi:
"In quel tempo Gesù apparve agli Undici e disse loro: 'Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e se berranno qualche veleno non recherà loro alcun danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno.
Il Signore, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio.
Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme a loro e confermava la parola con i prodigi che l'accompagnavano". (Mc, 16, 15-20)
È il mandato che la Chiesa dà a vescovi, sacerdoti, religiosi e ad ogni uomo o donna che è di Cristo, perché risvegliamo la sonnolenza di tanti che vivono qui, senza neppure sapere dove vanno e scegliendo a volte sentieri che portano da nessuna parte.
Ma mi chiedo:
si può vivere serenamente senza la nostalgia del Cielo e di una vita senza fine vicino a Dio?
Che senso può avere una vita che ponga la sua attenzione solo in questa esperienza quaggiù, senza un futuro oltre?
La solennità dell'Ascensione dovrebbe scuoterci tutti sul vero senso che Dio ha 'sognato' per la nostra vita, ossia un breve 'soggiorno' quaggiù, in attesa vigile ed amorosa dello Sposo - come le 'vergini prudenti' del Vangelo, con la lampada accesa della fede e non come 'le stolte' che si fanno trovare impreparate al Suo arrivo e sentono da Lui pronunciare le terribili parole: 'Non vi conosco '. Vivere attendendo il giorno del nostro ritorno al Padre è la vera saggezza, la conferma della nostra fede, la vera realizzazione della nostra esistenza.
Scriveva Paolo VI:
'Viviamo della speranza di Gesù che, salendo al Cielo, ci ha dischiuso nell'anima. Essa ci darà miglior senso di questa vita presente, essa ci libererà dall'incombente ossessione del materialismo organizzato, opprimente castigo a se stesso!
Ci inviterà a sopportare i dolori del nostro viaggio terreno e infonderà premura e amore per beneficare i nostri simili!
Ci conserverà nella libertà dello spirito che l'orizzonte puramente temporale tenta di restringere e soffocare.
Ci farà solerti a rinnovare anche in questo orizzonte della vita le tracce dell'eterna Luce e a fare risaltare la bellezza e la dignità nascosta.
Ci ammonirà, finalmente, a considerare questo nostro soggiorno terreno come una veglia laboriosa e amorosa, sostenuta dalla preghiera, che vince il sonno della materia e della morte, in attesa dell'incontro e del ritorno di Lui, Gesù, che è la nostra Pace e la nostra Vita". (maggio 1958)