Omelia (10-06-2012) |
mons. Gianfranco Poma |
Prendete, questo è il mio corpo Nella festa del Corpus Domini la Liturgia ci fa leggere il brano del Vangelo di Marco (14,12-16.22-26), nel quale è narrata l'istituzione dell'Eucaristia. I liturgisti, purtroppo, hanno omesso alcuni versetti (14,17-21), concentrando tutta l'attenzione sull'essenziale, ma cancellando la tensione drammatica del contesto nel quale si svolge l'evento, con il rischio di ridurne il significato. "Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici. Mentre erano a tavola e mangiavano, Gesù disse: ‘In verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà'. Cominciarono a rattristarsi..." "In verità io vi dico..." Gesù ha la percezione esatta della fragilità dei suoi discepoli, di quelli che gli sono più vicini, che mangiano con lui. E la solennità della frase le conferisce un valore che va oltre la situazione precisa che sta descrivendo e ne fa la rivelazione della chiave di lettura della storia: "Uno di voi mi tradirà, che mangia con me". Gesù non fa nomi, e "cominciavano a rattristarsi e a dire a lui uno per uno: ‘Forse io?' E lui dice a loro: ‘Uno dei Dodici, che intinge con me nel piatto'..." L'Eucaristia non è la celebrazione romantica, sentimentale, esangue di una emozione vissuta tra amici: come Marco la descrive è la realizzazione del patto di Amore che lega Dio e il suo popolo, simbolizzato nella concretezza dei Dodici, ma i cui confini si allargano alla "moltitudine", all'umanità intera; è la rivelazione concreta, che si fa visibile, tangibile, sperimentabile nei gesti e nelle parole di Gesù, del volto di Dio, di che cosa sia il suo Amore per ogni uomo e per il mondo intero, Amore gratuito, drammatico, per chi ("forse io?") non lo merita, non lo capisce, lo tradisce; è l'affermazione della certezza che nonostante tutto il male del mondo e della storia, l'Amore vince. Questo testo di Marco e dei paralleli sinottici, è oggetto di studi infiniti di esegeti e di teologi. Le diverse confessioni cristiane si confrontano sulle loro diverse interpretazioni teologiche, segno della inesauribilità della ricchezza del mistero che qui si rivela. "Il primo giorno degli Azzimi, quando immolavano la Pasqua...": il contesto è quello della Pasqua, della memoria del passaggio del popolo di Dio dalla schiavitù alla libertà, dell'immolazione dell'agnello, della cena pasquale. In questo contesto che richiama i significati della Pasqua, tutto ciò che Gesù compie è nuovo: è nuova la Pasqua di Gesù con i suoi discepoli, umanità nuova che trascende i legami di sangue, liberata non più dalla partecipazione a riti, ma per la comunione reale al dono di Amore che da Lui passa ai discepoli. "E mentre essi mangiavano, prendendo il pane, avendolo benedetto, lo spezzò, lo diede loro e disse: Prendete, questo è il mio corpo". La narrazione di Marco non fa più cenno ai riti della cena ebraica: evidentemente intende orientare altrove l'attenzione. I gesti di Gesù sono presentati in modo estremamente sobri, in una frase costruita in modo preciso: i verbi in forma secondaria preparano la novità dei gesti di Gesù, descritti dei verbi principali. La premessa è il contesto conviviale nel quale egli "prende il pane" che "ha benedetto": tutto è dono che viene dal Padre, che deve essere donato perché tutto diventi comunione, gioia, vita, rendimento di grazie e poi torni a Lui. Per questo, adesso, viene la novità dei gesti e delle parole di Gesù. "Lo spezzò, lo diede loro e disse...": con la frazione, spezza l'unità del pane, perché possa essere distribuito e proprio perché spezzato e distribuito possa creare l'unità di tutti coloro che mangiano dell'unico pane spezzato. E mentre lo dona Gesù pronuncia una inattesa parola interpretativa: "Prendete, questo è il mio corpo". Comincia con l'imperativo ‘prendete', che chiede ai discepoli di accoglierlo con un atto personale. Ciò che segue, rinnova radicalmente il senso di ciò che sta accadendo: "questo è il mio corpo", sono parole che vanno al di là della percezione normale delle cose, e ne aprono una nuova. A questo punto, i discepoli (che oggi siamo noi) sono chiamati ad entrare nel mistero della persona di Gesù e della sua Parola: "questo pane detto da Lui è e non è pane, è e non è il corpo di Gesù" (Léon-Dufour). "Tra il visibile e ciò che non può che essere compreso, c'è rottura e congiunzione...La parola si mangia come il pane, il corpo detto si comprende come la parola...La parola di Gesù fa in modo che il suo corpo sia "donato", non "tradito, abbandonato"... Questo corpo che altri vogliono abbandonare alla morte, Gesù lo dona come dona il pane per nutrire la vita degli uomini: nutrirà coloro che lo ricevono e lo mangiano secondo la sua parola, affidandosi a lui". Nel momento nel quale, nella fragilità dei Dodici si esprime la radicale fragilità umana, Gesù dice il mistero di Dio, mistero che si incarna per fare propria la fragilità, amarla e salvarla: mistero di infinito Amore, che si comincia a sperimentare quando si comincia ad amare la fragilità, il corpo di Gesù, abbandonato alla morte e donato per amore. "E prendendo il calice, avendo rese grazie, lo diede loro, e tutti ne bevvero": la seconda azione di Gesù è parallela alla prima, egli offre ai discepoli il calice dopo aver reso grazie. A differenza del pane, per il vino manca l'imperativo ‘prendete', mentre il racconto dice immediatamente: "essi ne bevvero tutti", come ad indicare la gioia che viene dal gustare la dolcezza del vino. A differenza di quanto avviene per il pane, curiosamente, la parola interpretativa di Gesù segue l'atto di bere. "Questo è il mio sangue dell'alleanza, quello effuso per molti": l'interpretazione di Gesù precisa che l'oggetto del dono è il suo sangue, quello che lui ha effuso, ed è sangue di alleanza. La parola intepretativa rivela la relazione nuova tra colui che dona e coloro che ricevono il dono: è, come quella pronunciata sul pane, parola performativa che conduce al di là di ciò che è visibile, guida ad aprirsi ad un senso nuovo del vino condiviso. Come il corpo di Gesù è il pane spezzato, donato, mangiato, per la vita nuova, così il suo sangue è vino condiviso perché scorra nelle vene dell'uomo la forza nuova che è l'Amore di Dio, che è gioia, libertà dei figli di Dio. Ai suoi discepoli, tristi, angosciati, sempre ripiegati su di sé, Gesù dona il suo corpo, dona il suo sangue, dona tutto di sé, perché essi vivano del suo dono: ma questa relazione stupenda, dell'infinita gratuità dell'amore di Gesù per i suoi discepoli, passa attraverso il dramma della sua passione, dell'effusione del suo sangue. La croce di Gesù che agli occhi del mondo è fallimento, condanna, non senso, è in realtà offerta infinita di Amore, il suo corpo piagato è in realtà donato, il suo sangue è effuso "per" la moltitudine. Ai suoi discepoli chiede di credere l'Amore che significa accettare l'invito: ‘Prendete, questo è il mio corpo', bere al calice del vino che è il suo sangue effuso per molti. I teologi continuano ad elaborare interpretazioni teologiche, gli esegeti ad illuminare lo sfondo veterotestamentario delle parole di Gesù: il sangue dell'alleanza di Mosè (Es.24), la sofferenza del servo di Dio di Isaia 53... Marco conduce a termine una parola che Gesù aveva detto: "Il figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto per molti (Mc.10,45)". Gesù è l'irruzione dell'Amore di Dio, infinito, nella carne del mondo: per questo il suo Amore è corpo spezzato, sangue versato, dramma, contaminazione con il peccato del mondo, ma questo è l'Amore, corpo mangiato, sangue bevuto, che scorre ormai nelle vene umane, che muore continuamente nella storia per risorgere e infondere coraggio e speranza a chi, tentato di adeguarsi a chi vede nella croce solo fallimento, è invitato ad alzare lo sguardo e a vivere già oggi, l'attesa della gioia piena della comunione con Lui, nel regno di Dio. |