Omelia (17-06-2012) |
mons. Roberto Brunelli |
Aspettare: come il seminatore i frutti del suo lavoro Non sappiamo stupirci, incantarci, lasciarci ammaliare davanti alle tante meraviglie che pure accadono sotto i nostri occhi. Ammiriamo un bel tramonto, un giardino fiorito, un paesaggio esotico; ma chi si meraviglia che ogni giorno puntuale spunti il sole, che da un piccolo seme nasca una pianta, che un animale accudisca ai suoi cuccioli? La scienza, con le sue pur necessarie spiegazioni, uccide la poesia delle cose; oppure, più comunemente, siamo distratti; oppure ancora siamo indotti da abili manipolatori a ricercare sempre nuove e più forti emozioni. A una riscoperta del fascino quotidiano invita il vangelo di oggi (Marco 4,26-34), richiamando l'attenzione su "un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce: come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura". E ancora, invita a considerare "un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piane dell'orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra". Poesia, pura poesia. Ma queste parole di Gesù vanno oltre l'emozione; i semi con i loro sviluppi sono spunti, utili a lasciare intuire realtà più grandi: "Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme..."; "A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? E' come un granello di senape..." Tema del discorso di Gesù è dunque, senza misconoscere la sua rilevanza poetica, il regno di Dio. Il regno di Dio, forse non è inutile ricordarlo, non è uno Stato che si affianchi agli esistenti, non è un'impresa o un'associazione come ce ne sono tante, di carattere economico, culturale, sociale. Il regno di Dio si trova là dove singoli uomini orientano a Dio la propria vita, e così facendo concorrono a orientare il mondo. In proposito, le due brevi parabole intendono affermare che la semina e la crescita del Regno si devono alla libera iniziativa di Dio, e solo Lui ne conosce le dinamiche; solo lui sa perché nasce e cresce più qui che là, più in un certo tempo che in altri, se presto o quando maturerà. E l'uomo deve avere pazienza; come il contadino non può affrettare la crescita di quanto ha seminato, così il cristiano può desiderare intensamente, con le migliori intenzioni, che il suo Signore sia conosciuto e accolto da tutti, ma deve umilmente sottomettersi a un progetto di salvezza di cui non è l'autore né il realizzatore. E' Dio che chiama, chi quando e come Lui solo sa; Dio ci invita a collaborare, ma non sappiamo come, quando e verso chi Egli valorizzerà il nostro impegno. Se ne deduce, da parte di chi ha accolto in sé il Regno e si rende disponibile a promuoverlo in altri, la necessità di evitare atteggiamenti incongrui. Periodicamente si pubblicano statistiche, sul numero dei cristiani nel mondo (intendendo i battezzati), su quanti partecipano alla Messa festiva, su quanti celebrano il matrimonio religioso e così via: ma sarebbe sbagliatissimo dedurne il livello di diffusione del regno di Dio: Lui soltanto legge nelle coscienze, Lui soltanto sa. Altrettanto errati sono due opposti estremismi, in cui è facile cadere. Da un lato un certo quietismo, molto vicino al fatalismo: poiché tutto dipende da Dio, è inutile che ci diamo da fare; possiamo solo aspettare. Dall'altro lato una sorta di efficientismo, che porta a organizzare, prevedere, moltiplicare opere e programmi, come se l'attuazione del Regno dipendesse dall'impegno umano. Certo, è un dovere darsi da fare; ma guai se questo andasse a scapito della preghiera, dell'umiltà, della fiducia in Colui nelle cui mani sta tutto il mondo e chi lo abita. |