Omelia (01-07-2012) |
Marco Pedron |
Lasciar andare e diventare grandi Il vangelo di oggi ci presenta due racconti (la figlia di Giairo e l'emoroissa). I due racconti sono intrecciati tra di loro non solo nel racconto, ma dai "dodici anni" (5,25; 5,42). La figlia di Giairo non ha il coraggio di diventare donna, l'emoroissa, invece, non riesce ad accettare di essere donna. Quest'anno ci soffermeremo solo sul racconto della figlia di Giairo. Il vangelo inizia col dire che Gesù era passato all'altra riva (5,21). Non è semplicemente un'indicazione temporale ma è un'indicazione di vita: "Bisogna passare". Bisogna andare, bisogna crescere, bisogna evolvere, bisogna lasciare una situazione per andare verso un'altra, perché se non fai così ti ammali, muori, cessi di vivere nell'animo o nel corpo. I nostri problemi nascono perché "non passiamo", perché non vogliamo crescere, perché non vogliamo lasciare una riva per andare verso un'altra. Rimaniamo sempre lì: ma rimanere sempre lì, fissarsi, magari per paura, è una sentenza di morte. La vita non si può ripetere, né fermare: la vita è procedere. Bisogna passare! I grandi problemi della nostra vita nascono perché le nostre relazioni non si trasformano. Da figli non si riesce a diventare adulti e si rimane dipendenti, succubi, preda del giudizio altrui. Il padre comanda e il bambino obbedisce. Ma se il figlio non riesce a deludere il padre: "No, non faccio come vuoi tu; faccio come voglio io" (e questo crea un gran dolore proprio a quel padre che così tanto ama), rimarrà per sempre un sottomesso, un esecutore, un servo di qualche padrone. Da fidanzati non si riesce a diventare sposi, persone che si amano, e si vuole perpetuare il romanticismo di quel tempo: "Una volta eri sempre gentile; una volta mi dicevi sempre che mi volevi bene; una volta avevi un carattere diverso", allora la relazione finisce perché la vita chiama a passare ad altre rive. L'innamoramento è quel periodo dove si cerca di compiacere l'altro (per conquistarlo), per cui si mettono in luce tutte le sue doti positive e si nascondono le proprie negative. Nell'amore invece si pensa anche a sé, per cui emergono i propri lati meno luminosi e non si è sempre attenti e disponibili verso l'altro. La frase classica è: "Non sei più quello di una volta" (per fortuna!). L'innamoramento è: "Ci sei tu al centro della mia vita". L'amore è: "Ci sono io e ci sei tu al centro della mia vita". Da sposi si diventa genitori dimenticandosi che si è ancora compagni. Allora ci si butta tutto sui figli e il rapporto di coppia rinsecchisce, diventa arido, abitudinario. Lui si getta sul lavoro e lei lo rimprovera di non essere mai a casa. Lei si butta sul figlio e lui la rimprovera di non esserci mai per lui e per loro. Da adulti non si accetta di diventare anziani, di perdere le posizioni dominanti, di vedere che altri ci superano, che altri sanno più di noi, che non abbiamo più la forza di influire come un tempo. Si inizia a dire: "I figli quando sono grandi non si fanno più vedere!; tu fai tanto per loro e poi guarda come ti ringraziano!; ho fatto tanto al lavoro, è arrivato un altro e ha cambiato tutto". Diventare anziani vuol dire accettare che lo spazio di vita passa lentamente da noi ad altri: non è facile essere messi da parte, soprattutto se non si capisce che l'anzianità è l'età della saggezza, dell'esperienza, dove si è chiamati a diventare maestri di vita. Ma se non avviene così ci si sente solo delusi e amareggiati. Anche il vangelo di oggi ci parla di passaggi che le persone devono fare per vivere e per amare. Perché per vivere bisogna lasciare andare, distaccarsi, a volte, anche da ciò che si ama. Perché per amare bisogna lasciar andare, perdere, anche chi ci è caro altrimenti lo soffochiamo e lo uccidiamo. C'è un uomo, Giairo: è il capo della sinagoga. Osservate bene il vangelo, dice: "Si recò da Gesù uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo". Non si dice: "Si recò da Gesù Giairo, che era capo della sinagoga". Cioè: prima viene il ruolo e poi l'uomo. Ma quando il ruolo viene prima dell'uomo allora si è perso l'uomo. Quest'uomo ha un ruolo in vista, importante: ma la sua vita è diretta da quello che fa e non da quello che è. Oggi diremmo che è un sacerdote, "uno conosciuto", uno "in vista", un insegnante, un laureato, un imprenditore, ecc. Qual è il grande pericolo di quando tu sei "uno importante"? Il grande pericolo è di identificarti nel tuo ruolo. Allora non sei più solo un prete ma sei sempre prete: non c'è più la tua umanità, i tuoi limiti, i tuoi desideri, ma tu, ad esempio, vuoi sempre insegnare, dirigere, predicare. Allora non sei più solo il capo di una grande azienda, ma sei il capo che ordina anche a tua moglie, ai tuoi figli e a tutti. Non ti metti mai in gioco, perché tu sai sempre cosa è giusto, cosa è sbagliato, cosa si deve fare e cosa non si deve fare. Ma così non ascolti più. Così non ti accorgi più che non sei in azienda ma a casa tua. Allora non sei più una persona solo "ammirata e stimata" da tutti, ma diventi prigioniero del ruolo: tutti ti conoscono, come fai tu a sbagliare? Come fai tu a perdere la pazienza? Perché tu, dice il tuo ruolo, non puoi perdere la pazienza! Come fai tu ad arrabbiarti o a legittimarti i tuoi desideri? Perché tu, dice il tuo ruolo, tu pensi sempre agli altri! La figlia di Giairo soffre di mancanza di riconoscimento da parte del padre. Perché diciamo questo? Per vari motivi. Il primo è chiaro: Giairo è interessato più al suo ruolo che a sua figlia. "Ma cosa dirà la gente? Bella figura ci hai fatto fare!": quando un genitore dice così che messaggio passa al figlio? Passa: "La gente è più importante di me; io valgo meno della gente". "Tu caro papà, cara mamma, pensi più a te, al giudizio che gli altri potrebbero avere su di te che a me". Un figlio non si può sentire amato, accolto, riconosciuto. Non può sentire su di sé il riconoscimento paterno: "Tu sei mio figlio; tu sei la cosa più preziosa che ho", perché la cosa più preziosa è, invece, il giudizio degli altri. Se ciò che dice la gente, il nonno, il prete (perfino Dio), è più importante di mio figlio, lui si sente rifiutato. Giairo proprio non la vede, non la riconosce, neppure si accorge che giorno dopo giorno sua figlia sta morendo; Gesù deve guarire il padre perché la figlia guarisca; Giairo non si rende proprio conto che se sua figlia sta male è perché lui ne è la causa. Sanno benissimo questa cosa coloro che lavorano con le persone (educatori, preti, psicologi, assistenti sociali, ecc.): il problema non è quasi mai (o forse mai) il figlio, ma il genitore. E quando viene il genitore: "Mio figlio ha un problema", bisogna rispondergli: "Bene, signore, si sieda che curiamo lei!". "Ma come? E' mio figlio che sta male!". "Sì, appunto: suo figlio sta male e noi qui curiamo l'origine, la fonte del male". E' per questo che tanti genitori rifiutano di farsi aiutare nei problemi con i figli. Non accettano l'idea di essere la causa del disagio dei propri figli. Ma la realtà è così. Si sentono troppo in colpa, è troppo dolorosa l'idea che io genitore possa ferire mio figlio. Ma se si mettesse da parte il proprio orgoglio ("io amo mio figlio!"), si potrebbe vedere che: 1. Non lo si fa per cattiveria, ma per ignoranza, per inconsapevolezza. 2. Lo si fa perché a sua volta anche noi siamo stati feriti e riproponiamo le stesse cose ai nostri figli. 3. Che trasmettiamo un sacco di amore (questo non è in dubbio, mai!) e insieme anche dei disagi. Ma che possiamo essere anche dei genitori imperfetti: non è necessario per i nostri figli avere dei genitori perfetti, ma semplicemente umani. Se accettassimo questo potremmo anche farci aiutare. 4. Che farci aiutare, cambiare noi, vuol dire benessere e vitalità per i nostri figli e anche per noi. Allora i nostri figli diventerebbero davvero un dono: ci aiuterebbero a crescere (non è amore puro quando un genitore si mette in discussione grazie a un figlio?!) e a diventare degli uomini e delle donne migliori. Due genitori erano esausti: il figlio di dieci anni faceva ogni notte la pipì a letto. Dopo aver parlato insieme, è emerso che erano troppo invasivi: dovevano lasciargli più spazio. Piccoli accorgimenti dei genitori (chiedere permesso quando si entrava in camera sua; lasciarlo scegliere; scritto fuori della porta della sua camera: "Questa è la stanza di Alberto", ecc.) e il figlio è guarito. Quando i genitori hanno cambiato atteggiamento (cioè sono guariti) il figlio è guarito. Non è meraviglioso!? Una donna aveva avuto un aborto spontaneo prima di suo figlio. A quello nato aveva messo il nome di quello morto. Capite che non è sano questo: vuol dire che lei non si era mai staccata dal dolore di quello perso e che in quello nato vedeva due persone. E d'altra parte il figlio si sentiva in vita solo grazie al fratellino morto (quindi per miracolo). Infatti il figlio era sempre spento (lo schema: se non c'è la morte, io non vivo; quindi per lui vivere era uguale essere un po' morto), senza vita, troppo obbediente. Capita la cosa, fatto il lutto, spiegata al figlio, compiuto un piccolo rito, il figlio è guarito (e anche la madre!). Non è meraviglioso!? Il padre non riconosce sua figlia per un altro motivo. La chiama, infatti, "la mia figlioletta". Ma questa sua figlia ha dodici anni, e a quell'età si diventava adulti, duemila anni fa in Palestina. Cioè: non è più la sua figlioletta, la sua bambina, è una donna matura che deve fare la sua strada. Ma per lui è ancora la piccola bambina; lui ha bisogno di vederla così, di non vederla crescere. Non la riconosce perché ha paura di perderla, di vederla crescere. Fino a dieci, dodici anni, hai l'illusione che tuo figlio sia tuo. Gli comandi e lui obbedisce. E se non lo fa', non importa, perché tanto tu sai che lui ha bisogno di te e che tu sei più forte. Ma poi inizia a risponderti, ti mette in discussione e alle volte ha più ragione di te nei discorsi. Non solo: si trova l'amichetto/a, esce con lui, non gli interessi più tanto e non gli va neanche più di venire in vacanza con te. Allora scopri che quel figlio non è più il tuo figlio: no, no, lui ha un suo carattere e una sua vita, indipendente dalla tua. Ma è difficile per te genitore lasciarlo andare, è difficile accettare che non sia più tuo ("Finché sei qui si fa così!; quando avrai casa tua farai quello che vorrai; questa casa non è un albergo! ecc."). Ma cosa può fare una figlia che non è riconosciuta dal padre? Che cioè il padre non la riconosce come sua (quando nasce, anche solo per un attimo, non è felice), o non la riconosce come sua figlia (ma la riconosce solo come compagna perché magari il rapporto con la moglie non funziona o come amica perché non c'è relazione, complicità con la moglie), o non la riconosce come donna (avrebbe preferito un maschio o una donna diversa) o non la riconosce come persona (non le piace il suo carattere)? Succede una cosa semplice. Quando un padre non riconosce sua figlia, a questa mancherà la fiducia in se stessa. Soffrirà tantissimo e cercherà in tutti i modi di recuperare questa fiducia. Ci sono varie strategie. A. Compiacere: "Mi vedi papà? Ti piaccio, papà?". Cercherà di farsi vedere, di risultare gradita, di essere bella. Le figlie così, da adulte cercano l'ammirazione negli uomini; si sentono realizzate solo se piacciono. "Il mio valore lo stabilisce l'uomo (se mi vede, se mi apprezza, se mi guarda)". Lei non ha valore (e ciò che ha dentro, le sue risorse): vale solo se gli altri glielo danno. E' la donna che ammalia il titolare, che fa la seducente, che deve affascinare o risultare gradita. Avete presente quelle donne, ad esempio (e non è detto che siano particolarmente belle), dove c'è un uomo che ha un ruolo importante e loro dicono sempre di sì, sono sempre gentili, sempre sorridenti, sempre disponibili? Forse qualcuna di loro sta applicando proprio quel vecchio schema: "Ti piaccio, papà?". Non c'è più il papà, adesso ci siete voi. B. Fare la brava bambina: "Sono brava, papà? Sono come vuoi tu, papà?". La figlia cerca di fare quello che piace al papà così da ottenere la sua approvazione. Si interessa di sport come lui, vuole i capelli a maschietto come il papà, esclude la mamma dal loro rapporto, da grande si interessa dell'azienda e degli affari del papà, interviene economicamente se le cose non vanno, fa la forte, ecc. C'è una donna che ha 45 anni: è vissuta per il lavoro negandosi una vita sua e una famiglia. Ha vissuto per suo padre (inconsciamente), per realizzare lei quello che lui non è riuscito a realizzare. Ha raggiunto un livello dirigenziale nel mondo del lavoro, ma non è quello che lei desiderava. C. Fare la ribelle: "Non ti interesso? Sarai costretto ad interessarti a me!". E' la figlia oppositiva, ribelle, quella che duella con il padre: "Vediamo se mi ami per davvero? Non ti interesso? Ti costringo ad interessarti a me". La figlia cerca di riavere quello che le è mancato all'inizio: "Tu sei mia figlia e tu mi vai bene solo per il fatto che sei mia figlia e nient'altro". Cosa fa Gesù? Per prima cosa guarisce la fonte del problema, il padre. Gli dice (5,36): "Non temere continua solo ad aver fede". Gesù sente la paura del padre, il terrore profondo che ha. E' chiaro che lui è coinvolto con la figlia: non può lasciarla andare, non può accettare che diventi donna. Non sappiamo di cos'abbia paura, ma sappiamo che ha una paura enorme. Allora Gesù gli dice: "Riconosci, vedi, accorgiti della tua paura. Finché tu non vedi che è la tua paura di perderla che la uccide, che le impedisce di vivere, tua figlia non può guarire". Per guarire bisogna sapere di essere ammalati. Per guarire bisogna accettare di passare, che qualcosa debba trasformarsi e cambiare; per guarire bisogna dare un nome alle proprie paure e riconoscere che le nostre paure ingabbiano, imprigionano e fanno morire chi ci è vicino (e magari amiamo tantissimo). Ma "continua ad aver fede" vuol dire anche: ciò che succede ha un senso profondo, non aver paura. Pisteuein (aver fede, affidarsi) vuol dire anche "essere sicuro, fissarsi in Dio". Allora: "Ciò che succede, sta' tranquillo, è cosa buona per te e per lei. So che hai paura, ma fidati che è importante che avvenga. Anche se c'è un po' da soffrire, da questa sofferenza nascerà la vita". Questo è fondamentale perché quando soffriamo, quando dobbiamo compiere dei distacchi e lasciar andare, non riusciamo a farlo se non capiamo il senso che c'è nella cosa. Ma poi Gesù si rivolge anche alla figlia e le dice: "Fanciulla (talità)" (5,41). Non è più la piccola bambina del padre ("figlioletta" 5,23): "Sei una donna, sei grande, diventa consapevole di ciò che sei. Tu non sei di nessuno; non sei di tuo padre, tu sei solo di te stessa, non vivere da dipendente e da schiava. Sei una regina (=padrona della tua vita), vivi da regina!". E poi le dice: "Egheire (svegliati, alzati; 5,41)" e "Aneste (alzati; 5,42)". Entrambi i verbi sono tipici della resurrezione di Gesù. Questo vuol dire che resurrezione non è solo passare da questa vita ad un'altra vita, ma ogni volta che noi "passiamo" da un modo di vivere ad un livello più armonico, più vitale, più appassionato, più libero e più vero, anche questa è resurrezione. Ogni volta che noi guariamo, che noi diventiamo più consapevoli, che liberiamo gli altri dalle nostre proiezioni di morte, questa è resurrezione. Resurrezione, fede e religione, è allora far uscire la vitalità, il Dio che dorme, dalla nostra vita. Egheire vuol dire svegliati, vieni su, apri gli occhi dal sonno. Tu eri dentro ad un'illusione e un giorno ti svegli. Allora ti dici: "Ma dov'ho vissuto finora? Ma come ho fatto a non rendermi conto, a capire?". Non vedi che vivi per compiacere gli altri? Non vedi che cerchi l'approvazione di tutti? Non vedi che mendichi amore da tutti? Non vedi che "si è perso l'uomo" e vivi solo nel tuo ruolo? Non vedi che te la stai raccontando? Non vedi che chiami "amore" il possesso? Non vedi che corri sempre perché se ti fermi ti accorgi che non hai realizzato niente? Non vedi che il tuo "Dio" non è nient'altro che il ciuccio o il biberon della mamma? Egheire è il sonno che finisce, l'illusione che cade, per cui si vede la realtà. Dura e terribile all'inizio, perché si era visto ciò che non esisteva, ma poi vitale. Aneste, invece, vuol dire alzarsi, venire in piedi. Gesù, quando la alza, la prende per mano (5,41). Il verbo utilizzato è krateo che vuol dire sia prendere che essere potente, forte. Gesù prendendola per mano e alzandola le dice: "Riprendi contatto con la tua forza; fai la tua strada; tu hai tutte le risorse e le forze per vivere; libera l'amore che c'è in te e la luce che dorme assopita; diventa ciò che sei". Gesù le fa prendere coscienza della sua forza: "Tu sei forte; tu puoi stare sulle tue gambe; vivi perché lo puoi!". Il vangelo si conclude con Gesù che ordina di darle da mangiare (5,43): la voglia di vivere (mangiare=vivere) è tornata a scorrere nella fanciulla. Non si può aver voglia di vivere se si vive la vita di altri. La voglia di vivere ci può essere solamente quando si vive la propria vita e il proprio cammino: se ne ha voglia perché è il proprio. Altrimenti ci si adatta e si "tira avanti", ma non si può sentire né gustare la bellezza della vita. Guardando a questo vangelo colgo una grande verità: c'era un grosso problema relazionale (la figlia stava morendo). Ma i guariti sono due. E capisco: perché una relazione, un rapporto, un'amicizia, un matrimonio, risolva i suoi problemi, le sue difficoltà e le sue crisi è necessario che entrambi guariscano e "passino all'altra riva". Pensiero della Settimana Se l'adolescente non si distacca dal bambino rimane infantile. Se il giovane non si distacca dall'adolescente rimane ribelle. Se lo sposo non si distacca dal giovane rimane sognatore. Se il genitore non si distacca dallo sposo rimane romantico. Se l'adulto non si distacca dal genitore chiede ai figli di farlo felice e di dargli ciò che lui non riesce a darsi. Se l'anziano non si distacca dall'adulto rimane concentrato su di sé. Se la morte non ci distacca dall'anzianità non sperimenteremo mai per davvero chi è Dio. |