Omelia (08-07-2012) |
mons. Roberto Brunelli |
Potenza e limiti delle parole umane Potenza e limiti della parola. Usandola con proprietà, lo scienziato può trasmettere il suo sapere e consentirne il progresso; usandola con maestria, il poeta sa commuovere, esaltare, spronare, incantare; usandola con malizia, si può offendere o ingannare. Ma spesso scritti e discorsi non esprimono esattamente il nostro pensiero, o perché non sappiamo trovare le parole adatte, o semplicemente perché, almeno nella lingua che usiamo, non esistono. Di qui ambiguità ed equivoci a non finire. Un esempio è dato dal vangelo di oggi (Marco 6,1-6), nel quale i compaesani di Gesù gli attribuiscono fratelli e sorelle; tanto è bastato, nel corso dei secoli, per indurre alcuni a basarvi una smentita della verginità di Maria: se oltre a Gesù ha avuto altri figli... Ma è un argomento debole, adottato più per attaccare la fede cristiana che per spiegare onestamente la Scrittura. In realtà chi studia le lingue sa bene che, mentre oggi si hanno termini precisi per indicare i diversi gradi di parentela e consanguineità, nel mondo antico, quando era fortissimo il senso di appartenenza a una famiglia o a una tribù, chi ne faceva parte - fosse cugino, zio, nipote, cognato - era considerato "fratello" di tutti gli altri. Perciò dire che un uomo, compreso Gesù, aveva fratelli non significa necessariamente che fossero figli della stessa madre. Per curiosità: non è questa l'unica ambiguità del linguaggio antico. Sempre a proposito di Gesù, qualcuno ha creduto di rafforzare la tesi che avesse fratelli, appigliandosi al fatto che talora egli è detto ‘Primogenito': dunque il primo, ma non l'unico figlio. La tesi è miseramente crollata quando in una tomba egizia si è scoperta la scritta relativa a una defunta, la quale "morì nel dare alla luce il suo figlio primogenito". Il primo non comportava dunque altri figli, ma lo si segnalava perché a lui competevano particolari diritti e doveri, un po' come nelle monarchie, dove spetta al primo nato raccogliere il titolo e l'autorità del genitore. Anche un altro passo delle letture di oggi ha dato luogo a fraintendimenti. Nella sua seconda lettera ai cristiani di Corinto, Paolo tra l'altro scrive (12,7-10): "E' stata data alla mia carne una spina, un inviato di satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: ‘Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza'". Molti interpreti della Scrittura si sono chiesti che cosa fosse mai quella spina nella carne, e ne hanno dato le più diverse spiegazioni, dalle tentazioni di una disordinata sessualità a una malattia condizionante (è possibile, un disturbo agli occhi). Tuttavia, pur se una risposta certa non c'è, l'insieme dei passi in cui nei suoi scritti egli parla di sé induce a ritenere che la spina fossero i tanti ostacoli al suo ardente apostolato: impedimenti e persecuzioni dai nemici, incomprensioni dagli stessi fedeli, forse anche una salute non sempre ottimale. Ne paiono una conferma le parole seguenti: "Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo". L'ansia di adempiere al meglio la missione ricevuta gli faceva sentire come una spina tutti questi impedimenti; perciò ha chiesto ripetutamente di esserne liberato, sino a quando ha capito che se fosse riuscito a fare tutto quello che aveva in mente avrebbe coso il rischio di ritenerlo opera propria, e quindi peccare di superbia. Chi lavora per Cristo - Paolo, i missionari, i sacri ministri, i catechisti e tutti i cristiani intenzionati ad essere suoi testimoni - non devono aspettarsi senz'altro il successo, né deprimersi di fronte alle difficoltà. Gli basta sapere di essere nella grazia, cioè nell'amore, di Dio. |