Omelia (08-07-2012)
Giovani Missioitalia
Profeti in patria?

Ma chi è questo Gesù, che va in giro dicendo di essere addirittura il Figlio di Dio, suo figlio unigenito, quando tutta la gente del paese, a parte Maria, sua madre, che ne conosce il "segreto", è testimone delle sue umili origini di falegname, figlio di falegname e attorniato da uno stuolo di fratelli e sorelle? Come può costui vestire i panni del grande predicatore, del guaritore, persino del profeta? E pensare che lui, date le circostanze evidentemente sfavorevoli, si limita a guarire solo alcuni malati, nonostante la generale incredulità. In quel contesto, l'aver compiuto dei prodigi avrebbe potuto compromettere la sua missione o più semplicemente i rapporti sociali della famiglia.
A uno scampato pericolo grave, o a qualsiasi evento che comporti una "guarigione" inspiegabile secondo la razionalità umana di cui la scienza è nel contempo figlia e madre, assegniamo il termine di "miracolo", operato da questo o quest'altro santo protettore che asseconda una multiforme e spesso inconsapevole religiosità popolare da cui ognuno di noi è avvolto. Qual è, allora, il motivo per cui Gesù, giunto tra la "sua" gente incredula anche davanti all'evidenza del "miracolo", può guarire i malati con l'imposizione delle mani, ma non può compiere "prodigi"? Possiamo reagire con sospetto, ma anche con stupore e meraviglia, addirittura gridando al "miracolo", quando veniamo a conoscenza di guarigioni non confortate dalla scienza. Ma il Vangelo ci dice che questi eventi sono quelli di minor conto, se ne possono verificare pochi o molti, ma non sono fatti prodigiosi. Perché? Forse perché non implicano un ruolo attivo della comunità, cioè la conversione della comunità alla condivisione evangelica, che è il mettersi a servizio dell'altro, soprattutto del povero e di chi è nella sofferenza, con gratuità ed umiltà. Certo che nel disprezzo di una proposta di condivisione non può aver casa la profezia che libera, attraverso gli insegnamenti del Falegname di Nazareth, la prodigiosa forza dello Spirito costretto tra le mura della sinagoga! Quella non è (più) né la gente né la famiglia della sua patria; la patria di Gesù saranno i villaggi, il "villaggio-mondo" al quale ogni cristiano è inviato in virtù del battesimo ricevuto e confermato.

E' vero, è diventato persino un modo di dire quando si polemizza su una voce profetica che si alza per denunciare un'ingiustizia:
[Profeti in patria?]

«un profeta non è disprezzato se non nella sua patria». Ma, sulla scorta di quanto leggiamo, vediamo e ascoltiamo attraverso le sempre più invasive campagne mediatiche, quelli che oggi si presentano ostentatamente come "profeti" o "unti del Signore", il più delle volte collocati al di fuori del mondo religioso (capaci di sfruttarne, però, i simbolismi e gli impulsi spirituali), in realtà posseggono ben poche caratteristiche della profezia, la quale deve rispondere comunque al requisito pratico della coerenza e della testimonianza.
La verità e la carità non sono protesi mentali, asportabili e intercambiabili a piacimento con l'ipocrisia e l'indifferenza.
Il Concilio Vaticano II ci ha aggiornati su una visione di Chiesa come "Popolo di Dio" al quale viene affidato il compito della profezia consistente non nella capacità scaramantica o propiziatoria di prevedere il futuro, ma nel dovere del discernimento per imparare a leggere i "segni dei tempi" che compongono la storia dell'umanità.
Dobbiamo essere sempre vigili, quindi, sulla vera identità di chi oggi, in questo mondo globalizzato, si presenta come profeta e ci propina, quasi sempre a pagamento, veggenze da sfera di cristallo.
La sorte del profeta biblico, invece, è quella fatta di insulti, di sputi, di percosse e di barba strappata dalla guancia, sempre e solo per giustizia in nome della verità.




Il commento è di Anita e Beppe Magri