Omelia (08-07-2012) |
don Alberto Brignoli |
La forza della debolezza Se vediamo un bambino piangere, ovviamente non ci stupiamo più di tanto: si sa, i bambini piangono per qualsiasi cosa, per tutto e anche per il suo esatto contrario. In fondo, è il loro modo di comunicare sensazioni. Se vediamo un anziano piangere, ci prende un sentimento misto di tenerezza e di compassione, pensando a cosa abbia potuto provocare in lui la tristezza o la commozione: forse è solo la fatica di vivere, oppure la nostalgia per qualcosa che prima rendeva felici, e che ora non c'è più. E se vediamo una donna piangere, pensiamo quasi immediatamente a cosa l'abbia potuta far soffrire o emozionare, soprattutto in campo affettivo, ma altrettanto immediatamente risolviamo tra noi e noi la questione pensando che il "gentil sesso" ha la lacrima facile, e quindi più di tanto non occorre farvi caso... Perché invece l'uomo maturo, adulto, sicuro di sé, tutto d'un pezzo e soprattutto - non poteva essere altrimenti - maschio, quello no, non piange mai, è forte e non può nemmeno pensare di trasmettere un'immagine di debolezza. Ma che, scherziamo? Nella debolezza di un uomo si manifesta la sua insicurezza e inaffidabilità: nessuno più si fiderebbe di lui, lascerebbe la sua famiglia allo sbando, senza punti chiari di riferimento, senza qualcuno che dica parole chiare e decise; se avesse un'attività lavorativa con dei dipendenti sarebbe la fine, non avrebbe più in mano la situazione, non riuscirebbe a governare quanto gli è affidato e quanto si è costruito con lo sforzo e il lavoro delle proprie mani. Nella sfera del privato, magari, si può anche indulgere un po' e a volte manifestare un certo allentamento della tensione, ma giusto in quei momenti in cui essere deboli è inevitabile, come di fronte a un bambino che aspetta un regalo il giorno di Natale, e cose di questo genere. Poi però basta debolezze: perché la debolezza è segno di insicurezza. Ma oggi ci sentiamo dire (da un maschio di quelli integerrimi e tutti di un pezzo, per di più): "Ti basta la mia grazia; la forza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza". E ci viene pure detto che questa è Parola di Dio. E il bello è che poi rincara la dose, questo Paolo di Tarso autore della lettera ai Corinzi che abbiamo ascoltato: "Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo". Ossia, quello che ordinariamente riteniamo un motivo di vergogna (la debolezza), per Paolo è addirittura motivo di vanto: qualcosa non quadra... È vero, qualcosa non quadra. Così come qualcosa non quadra nella vicenda umana di Gesù Cristo, perché non è concepibile che il Figlio di Dio, il Salvatore, il Figlio dell'Altissimo, Onnipotente in parole ed opere, subisca "oltraggi, difficoltà, persecuzioni e angosce" e di conseguenza li faccia subire anche ai suoi discepoli dicendo che è così che deve essere. E la cosa per Gesù è iniziata presto, al suo primo ritorno nella sinagoga di Nazareth, sua città natale, per poi concludersi sul Calvario appena fuori Gerusalemme, e perpetrarsi lungo i secoli in tutti coloro che credono in lui e che per il suo nome soffrono incomprensioni più o meno forti. Perché Paolo (che di persecuzioni verso i cristiani se ne intende bene) vuole ricordarci questo? Perché vuole che per forza di cose siamo deboli e fragili? Io non credo che questa sia stata l'intenzione di Paolo quando ha scritto questo testo: ossia, Paolo non ha voluto esortarci ad ogni costo ad essere deboli perché si possa manifestare in noi la potenza di Cristo, ma ci esorta a perseverare nella nostra debolezza - che comunque fa parte della natura umana - perché invece di essere segno di immaturità umana o di un'incapacità a vivere con forza la nostra vita di ogni giorno, può diventare motivo di fortezza interiore se vissuta nell'ottica della vicenda di Gesù Cristo, e non solo perché, di fatto, le prove e i sacrifici della vita rendono comunque più forti, sempre. È la stessa vicenda di Gesù Cristo, che da forte si fa debole, da onnipotente si fa fragile, da eterno si fa mortale, che ci aiuta a assumere le nostre debolezze non come motivo di sconfitta ma come motivo di grazia; sia perché ci ricordano che comunque siamo mortali e limitati, e quindi non abbiamo nessun diritto di "montare in superbia" qualsiasi cosa facciamo, dal momento che è la grazia di Dio che opera in noi; sia perché ci permettono di essere più vicini a coloro che la vita ha reso perennemente deboli, a coloro che la vita schiaccia e difficilmente risolleva, a coloro che fanno delle angosce e della difficoltà, purtroppo, il loro pane quotidiano. Penso che questo insegnamento di Paolo, che trova conferma anche nell'insuccesso della missione di Gesù al suo paese descritto nel Vangelo, continui ad essere di attualità per il nostro essere Chiesa testimone della misericordia di Dio verso gli uomini. La nostra pretesa di essere punto autorevole di riferimento ed educatori delle speranze degli uomini del nostro tempo, infatti, rischia di creare in noi discepoli di Cristo quell'atteggiamento di superbia e di superiorità da cui Paolo ci esorta ad allontanarci. La presa di coscienza, invece, delle nostre debolezze (come una spina nella carne dalla quale vorremmo ben volentieri allontanarci) ci deve portare non a pensare male di noi o a ritenerci degli incapaci nella fede bisognosi di un "giro di vite" forte che raddrizzi le nostre storture e inadempienze, ma a comprendere che in fondo siamo tutti quanti sulla stessa barca, credenti o no, cristiani o meno, perché tutti quanti siamo in cammino verso una perfezione che non è di questo mondo e che proprio per questo ci porta ad avere profonda compassione, sia verso le nostre debolezze sia, soprattutto, verso quelle altrui. Una Chiesa cosciente di essere debole non è una Chiesa che ha perso la lotta per la difesa dei valori non negoziabili; è semplicemente una Chiesa evangelica, pervasa dallo spirito di misericordia di Dio Padre che ci fa compagni di viaggio degli uomini e delle loro debolezze, e proprio per questo ancora più credibile e ancora più amabile. La nostra debolezza, allora, sarà la nostra forza: la forza di una Chiesa che, fattasi debole con i deboli e forte contro i potenti, testimonia l'amore di Dio al mondo più con l'umiltà dei fatti che con la pretesa degli insegnamenti. |