Omelia (22-07-2012) |
don Alberto Brignoli |
Vietato abbassare la guardia! C'erano una volta le ferie... quei giorni in cui sospendevi le tue attività lavorative e (senza perdere il posto di lavoro e la retribuzione) avevi la possibilità di riposare, di tirare il fiato, di passare il tuo tempo libero con le persone più care, di sistemare quello che durante l'anno non avevi il tempo di fare, di dedicarti magari a qualche viaggio rilassante o che comunque ti portasse un po' a non pensare alla routine quotidiana, o anche di concederti a qualche lettura particolarmente vivace che durante tutto l'anno ti appassionava ma per la quale non avevi mai tempo. Questi ormai, per la maggior parte delle nostre famiglie, stanno diventando dei bei ricordi. O peggio ancora, stanno diventando una costante, ma non si chiamano più "ferie", bensì cassa integrazione o mobilità; non si chiamano più "relax" ma stress da disoccupazione; non si chiamano più momenti di serenità, ma attacchi di ansia. E non parlo di uno sparuto gregge di persone: in Italia, sono già 8 milioni le persone che vivono sotto la soglia della povertà, ovvero il 13% della popolazione. Saremo anche nel mese di luglio e molti di noi saranno in questo momento anche in un beato e meritato periodo di riposo: ma non possiamo certo sentirci così sereni come quando, anni fa, le ferie duravano un mese e il ritorno al lavoro era comunque una certezza. E allora? Come influisce il nostro rapporto con Dio anche su queste cose? Cosa ci può dire la Parola di Dio su questo benedetto riposo, dato che il Signore Gesù oggi tira a sé i suoi discepoli di ritorno dal loro primo grosso lavoro di evangelizzazione e dice loro: "Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po'"?. Laddove è ancora possibile viverlo con serenità, il riposo delle ferie, così come il breve riposo domenicale (ripeto, ammesso che ancora esista), è senza ombra di dubbio un momento importante per ritrovare serenità, pace, ricuperare le energie, e dedicarci anche a quei valori dello spirito che l'ordinarietà della vita e la quotidianità del mondo del lavoro certamente non ci aiutano a considerare, almeno nella stragrande maggioranza delle professioni. Anzi, spesso il lavoro è motivo di tensione e di rabbia, e quindi "staccare la spina" ogni tanto fa bene alle nostre relazioni e fa bene soprattutto alla nostra salute fisica e mentale. Ma laddove c'è questa ansia di non sapere cosa sarà del nostro futuro; laddove c'è questa necessità impellente di dover lavorare ed invece si è costretti al riposo forzato e involontario; laddove il non lavorare è tutt'altro che ritrovare i valori dello spirito, cosa ci dice la Parola di Dio? Ancora una volta, come faccio spesso nelle mie riflessioni domenicali, sento che la Liturgia della Parola di oggi, sulla scorta pure della prima lettura tratta dal profeta Geremia, è rivolta a chi, all'interno della comunità dei credenti, assume un incarico di responsabilità, di coordinazione, di guida, ancor prima che di autorità. Si parla, infatti, di folle che accorrono a Gesù nonostante avesse deciso di riposare un po', perché esse si sentono "come pecore che non hanno pastore". E questo fa eco alla prima lettura, nella quale Geremia, in nome di Dio, si scaglia contro quei pastori che tutt'altro sono che guide amorevoli del loro gregge: "Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati". Cosa chiede allora la Parola di Dio a coloro che oggi, nel contesto sociale e religioso nel quale ci troviamo, sono chiamati ad essere pastori del gregge il cui proprietario non sono certo loro ma unicamente il Signore a cui essi devono rendere conto? Credo che venga loro chiesto ciò che Gesù fece con queste folle che non avevano la possibilità di riposarsi come i discepoli perché avevano affanni a cui pensare: "Ebbe compassione di loro, e si mise - nonostante tutto - ad insegnare molte cose". Ecco cosa ci chiede, il Signore: di aver compassione delle folle di oggi. E le folle di oggi hanno, come allora, affanni a cui pensare. Chissà, forse gli affanni di oggi sono gli stessi di allora: il lavoro, il cibo da portare a casa per sfamare una famiglia, il futuro dei figli, i debiti da saldare... Il Vangelo questo non ce lo dice, ma ci chiede di continuare ad essere da noi scritto nella realtà in cui viviamo. E sono certo che se ci mettiamo in ascolto delle folle di oggi, questo è il grido che ci chiedono di ascoltare: quello di aver compassione di loro e di aiutarli a trovare un motivo di speranza in questo momento in cui tutti quanti ci sentiamo disorientati. Ma non è facile neppure per noi pastori; e sono convinto che non sia facile non perché non sappiamo cosa dire o perché ci sentiamo impotenti a trovare soluzioni che forse non spetta nemmeno a noi trovare, ma forse perché non condividiamo abbastanza le sorti delle folle. È inutile negarlo: apparteniamo, noi uomini di Chiesa, a una categoria che in questo momento è privilegiata. Perché uno lavoro l'abbiamo (a volte nemmeno così faticoso) e uno stipendio, pure. E questo, se a volte è motivo di ringraziamento a Dio perché comunque non proviamo certe indigenze, insieme non ci può esimere dall'essere pure un motivo di pensiero e di preoccupazione per coloro che invece così privilegiati non lo sono. Concretamente, cosa vorrebbe poter dire, questo? Vorrebbe poter dire che, come pastori, dobbiamo esser capaci di avere compassione di queste folle, e quindi aiutare le comunità che ci sono affidate, nei limiti delle nostre possibilità, e magari anche oltre questi limiti, perché tutti quanto possiamo sentirci solidali nei confronti di chi il lavoro l'ha perso e il cibo per sé e per i propri familiari fatica a trovarlo. Tacere sull'iniqua ridistribuzione dei beni; tacere su licenziamenti fatti in maniera sommaria e approssimativa; tacere su soprusi nei confronti dei più deboli; tacere su episodi di corruzione o su ingaggi calcistici stratosferici che gridano vendetta al cospetto di Dio, non è certo avere compassione delle folle che si sentono senza pastore. Rinchiuderci in una fede fatta di bei momenti di spiritualità, in liturgie solenni e roboanti, in festeggiamenti che sia pur necessari a volte non sono certo esempi di sobrietà non significa certo avere compassione delle folle che sono senza pastore. Gesù e i suoi discepoli non hanno certo misurato le loro forze, quando c'era la necessità di venire incontro alle necessità delle folle. Questo è il momento in cui, forse, ci è proibito, come Chiesa, di abbassare la guardia; ci è quasi vietato dire "riposiamoci un po'". Questo è un momento storico urgente per far sentire la nostra vicinanza e la nostra presenza a fianco delle persone che lottano per un lavoro e per non soccombere alla disperazione. È il momento in cui il Signore "suscita un germoglio giusto che eserciti il diritto e la giustizia sulla terra; i giorni in cui Giuda sarà salvato e Israele vivrà tranquillo" perché c'è qualcuno che si prende cura di loro, e lo chiameranno "Signore - nostra - giustizia". Come Chiesa, non tiriamoci indietro, in disparte, a riposare un po'; perché anche per molta della nostra gente, purtroppo, non è il momento di farlo. |