Omelia (18-01-2004)
don Mario Campisi
La gioia nuziale dell'essere chiesa

Terminato il tempo della manifestazione del Signore, con la domenica odierna inizia il periodo liturgico "ordinario".
Oggi la pericope giovannea offerta al nostro ascolto è l'evento delle nozze di Cana. Con questo primo segno Gesù diede inizio alla sua manifestazione, ossia cominciò a rivelarsi come vero Dio: "...manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui" (v. 11).
Si tratta di un inizio di prima grandezza, simile, anzi superiore, all'inizio della creazione (Gn 2,1-12) ed alla nascita del popolo di Dio con il dono delle legge sinaitica (Es 19,1ss).
Questo brano evangelico, quindi, continua la tematica epifanica del battesimo di Gesù. La prima lettura (Is 62,1-5) illustra tale argomento in rapporto al popolo di Dio: il Signore sta per manifestare alle genti la gloria di Gerusalemme, il suo splendore di sposa di JHWH, teneramente amata dal suo Dio.
Il gesto compiuto da Gesù a Cana è una "epifania" messianica, cioè una manifestazione, proprio come il battesimo al Giordano.
Mentre, però, al battesimo è il Padre a svelare l'identità segreta di Gesù, qui è Gesù stesso che si manifesta. C'è un crescendo di voci dal Natale del Signore ad oggi: gli angeli, il Padre, Gesù stesso.
L'episodio racchiude in sè un molteplice simbolismo - Cristologico, mariano, ecclesiale -, l'uno dipendente dall'altro. Nella conclusione, poi, è indicato chiaramente (v. 11) il duplice significato del "segno": rivela la "gloria" del Figlio e conduce alla "fede". Perciò, pastoralmente, si possono assumere e sottolineare diversi punti di vista.
Uno degli aspetti che merita di essere accentuato è la dimensione sponsale dell'evento salvifico.
Le nostre comunità hanno bisogno di ritrovare tale prospettiva per ridare alla propria fede, alla propria vita sacramentale ed ai propri rapporti interni il calore e il sapore dell'amore sponsale.
Invitare ad un pranzo di nozze, sedersi insieme a tavola, mangiare e bere non solo acqua, ma anche vino, è un coagulo ricchissimo di realtà e di simboli umanissimi del vissuto universale, che il Padre nel Figlio ha assunto per dire se stesso a noi e a noi comunicarsi, ma ai quali, spesso, il cristiano non fa attenzione quando vive la sua fede, i suoi riti, le sue relazioni.
Tutta la storia della salvezza, il mistero di Cristo, la realtà sacramentale della chiesa, sono stati depositati da Dio Padre su realtà semplici, essenziali, umili, che sono come la tessitura abituale della vita e che fanno da supporto alla visita di Dio a noi.
Vivere di fede in Cristo nella chiesa è vivere da sposi, gioiosi e sicuri.
Sicuri perché lo "Sposo" - il Cristo - è fedele; perché la "Sposa" - la Chiesa - è sempre bellissima, dotata di tutti i doni (i carismi) che l'unico Spirito distribuisce a tutti; perché, anche se viene a mancare il "vino", c'è chi è capace di trasformare in vino anche l'acqua.
Perciò i cristiani sono contenti del loro Signore, della loro chiesa, dei loro sacramenti. Per loro Gesù non è un padrone, ma uno sposo da amare; per loro la chiesa non è qualcosa di antiquato della quale non resta che parlare sempre male, ma la sposa immacolata senza rughe di cui Maria è il tipo perfetto; per loro l'eucaristia non è un peso e una noia, ma il pranzo gioioso della comunione e dall'amore del Signore.
Un altro aspetto meritevole di rilievo pastorale in questo episodio delle nozze di Cana è la sua dimensione mariana.
La figura della madre, che qui Gesù chiama "donna", come anche al Calvario, ha un suo rilievo. Qui sono registrate le uniche parole di Maria del quarto Vangelo.
La prima è: "Non hanno più vino" (Gv 2,3).
Più esattamente il testo greco dice: "Non hanno vino", che rivela la coscienza di una mancanza più profonda, la mancanza appunto di ciò che il vino rappresenta nella simbologia veterotestamentaria, cioè la pienezza della gioia dell'amore fra sposo e sposa. Così appare nel Cantico dei Cantici: "I tuoi amori sono migliori del vino" (1,2); "La tua bocca è vino generoso" (7,10). Maria è il tramite tra antica e nuova alleanza: la prima manifestazione della "gloria" di Gesù passa attraverso la madre.
Propio lei, Maria, si accorge della mancanza di vino e ne sente, come donna e come madre, tutta la serietà, in quel contesto di festa. Ne informa il Figlio senza pretendere nulla. Espone così a Gesù l'insostenibilità della situazione e gli si affida. Non sa quello che farà Gesù, e si rivolge non al responsabile delle provviste, ma all'Unico che può trovare una soluzione: "Maria sa cosa manca ad Israele".
La chiesa, di cui Maria è qui la figura, non è chiamata a fare diversamente e altrettanto ogni credente. Saper accorgersi delle mancanze di cui soffre l'umanità, un'umanità che dovrebbe sempre banchettare e finisce per consumare tutto, senza mai dissetarsi. Saper interessarsi di tutto: non soltanto di ciò che è indispensabile per far sopravvivere, ma di quanto può far vivere con gusto, senza nascondersi o far finta di nulla. Saper guardare all'insieme, avere lo sguardo contemplativo, rivolgersi a Colui che può fare ciò che agli uomini è impossibile.
E' lo sguardo contemplativo del credente fedele che non mette in discussione la fedeltà di Dio, che non si preoccupa solo di sè, ma si accorge e si interessa della "sete di vino" di tanta umanità, che ha perso l'attenzione per l'insieme della vita.
E' anche lo sguardo di chi, quando se ne accorge, non si mette a cercare il colpevole, non accusa, non inveisce contro questo o quello, ma porta la domanda all'Unico che può e vuole (ha già voluto con la sua morte e risurrezione) provvedervi.
Questo è stata Maria a Cana, la donna laica, che è nella chiesa, "una presenza e un sacramentale dei lineamenti materni di Dio"; "la prima grande esploratrice e guida nel mistero della femminilità". Questo è chiamata ad essere la chiesa nella storia e a questo vanno richiamati i suoi fedeli.
La seconda parola è: "Fate qualunque cosa egli vi dirà" (Gv 2,5).
Ciò che Giovanni mette sulle labbra di Maria è il compito affidato ai discepoli, cioè alla chiesa. Maria e la chiesa rinviano alla sola legge che salva: la parola di Gesù.
Come Giovanni Battista, come Andrea, come Filippo e Pietro, Maria è una testimone di Cristo. Entra anche lei nella grande "testimonianza" ecclesiale, che il quarto Vangelo ha voluto essere.
Nella chiesa ogni discepolo è chiamato ad entrare in questa "testimonianza" rispondendo per primo ed aiutando a rispondere alla grande domanda, esplicita o implicita: "Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna" (Gv 6,68).
Dunque alla chiesa ed a noi ed alla nostra diaconia, sono rivolte quelle parole di Maria a Cana ed esse definiscono quale sia il contenuto unificante e fondante di ogni forma di ministero ecclesiale.