Omelia (19-08-2012) |
Marco Pedron |
Zoè: la vita scorre in me Questo discorso come tutto il vangelo di Gv è un discorso difficile da capire, strano, complesso. Il vangelo di Gv è un vangelo mistico, spirituale e non ci vuole dare tanto delle informazioni su Gesù: cosa ha detto, cosa ha fatto o che parabole abbia annunciato; ma vuole dirci cosa significhi credere in Gesù, che conseguenze ha e cosa comporta. Gv è uno che ha macinato i fatti e la vita del Cristo per cui noi non troviamo più nel suo vangelo i singoli fatti storici (sono solo sullo sfondo), ma il senso ed il significato che tali fatti hanno. Infatti, ad esempio, in Gv non troviamo neppure il racconto dell'ultima cena; ma troviamo questo lungo discorso sul pane. Non gli interessa tanto raccontare l'episodio dove Gesù mangia con i suoi discepoli, il fatto, il racconto storico (cosa che gli altri vangeli fanno), ma il senso di tutto questo per i discepoli e per ogni discepolo di Gesù. Gesù, dice Gv, ha sì celebrato un rito di saluto, di offerta e di memoria con i suoi discepoli prima di lasciare questo mondo (ultima cena) ma ciò che conta per te, uomo, è se tu celebri questo rito. Ciò che conta è se tu, come i discepoli, ti cibi di Lui. Ciò che conta è se tu mangi il pane vero. Questo è fondamentale per me: mi succedono varie cose nella mia vita. Se mi fermo solo a ciò che mi succede, se mi fermo solo alla superficie, alla crosta degli eventi, se rimango in superficie e all'esterno, non entro dentro la vita e alla mia vita. È fondamentale per me, invece, entrare dentro, cogliere il senso di ciò che mi accade e di ciò che avviene nella mia vita. Capire verso cosa la vita mi vuole far andare. Una donna doveva partire per le ferie. Tutto era programmato, ma all'ultimo momento il suo viaggio è saltato. Uno sguardo di superficie dice: "Che sfortuna! Tutti miei amici sono in vacanza e io sono sola qui a casa. Era un anno che aspettavo queste vacanze e guarda cosa mi tocca adesso!". C'è anche chi si lascia pervadere da pensieri persecutori: "Ma cos'ho fatto di male? Ma perché tutte a me?". Ma con uno sguardo alla Gv, cioè più penetrante, si pone altre domande: "Cosa devo imparare da questa situazione? A cosa mi sta invitando la vita? Perché devo stare a casa? Cosa devo imparare da tutto questo? Cosa mi permette e cosa mi impedisce il mio starmene a casa? Perché proprio in questo momento della mia vita? ecc.". Quella donna, infatti, che era sempre stata "insieme a qualcuno", (genitori e amici prima, fidanzati e partner poi) veniva finalmente messa di fronte a se stessa. Adesso non c'era nessuno con lei e doveva imparare a contare solo su di sé. Era sola: solo così poteva rendersi veramente conto di chi era, di quali erano le sue risorse, le sue paure e se poteva o no contare su di sé. Un'altra donna non vedeva l'ora di andare in vacanza. Parte per le ferie con la sua famiglia e come arriva in Sardegna, dove può stare tranquilla e serena per quindici giorni, le viene un'orticaria che la accompagna per tutto il tempo. Inizia a fare tutti i pensieri persecutori del caso: "Ecco, vedi, sono sempre io a rovinare la vacanza a me, a mio marito e ai miei figli?". Certo non è un fatto piacevole, ma siccome c'è, perché non ascoltarlo? Cos'è che le brucia (orticaria), che non può più sopportare, ma che non vuole ammettere a sé? Cosa le sta dicendo questa malattia, questo inconveniente? Ascoltandosi la donna ha capito benissimo cosa il suo corpo le stava dicendo: "E' inutile che tu pensi che un po' di ferie basteranno per poi tornare al lavoro meno stressata e impaurita di prima. Non sono le ferie che risolvono la situazione, ma il cambiare atteggiamento nel tuo posto di lavoro". C'è una crisi tra amici: ci sono dei conflitti e dei contrasti o dei differenti punti di vista o delle esigenze diverse. Posso dire: "Non mi capisce! Anzi non mi ha mai capito! E se è successo questo vuol dire che mi ha sempre mentito!". Oppure: "E' finita, meglio così". Ma posso guardare alla situazione alla Gv: cosa devo imparare? Cosa sta tentando di insegnarmi la vita? C'è una crisi tra marito e moglie. Posso dire: "E' colpa sua, è cambiata, non è più quella di una volta". Oppure: "E' meglio lasciarci perché non c'è più niente". Oppure: "Si sa che l'amore prima o poi finisce". Oppure ancora: "Tutte le cose belle durano poco!". Ma posso anche guardare la situazione alla Gv: "Cosa devo (e dobbiamo) imparare come singoli e come coppia? A cosa ci sta chiamando adesso la vita? Verso cosa dobbiamo andare?". In realtà le crisi di coppia sarebbero quasi sempre dei passaggi. Finora ci siamo amati in una certa maniera, adesso ci viene richiesto un amore diverso, nuovo, dove io e te ci trasformiamo. Le persone si lasciano non perché non c'è più amore, ma perché non riescono (o non vogliono) cambiare e non vogliono che il loro amore evolva. Vivendo così, nulla è più senza senso e permetto alla Vita (Dio) di insegnarmi ciò che mi deve insegnare ed a me di essere sua discepola. Così facendo la Vita mi forgia, mi plasma e mi fa evolvere. Discepolo sia in greco che in latino (disco in latino e μανθανο in greco) vogliono dire "colui che impara". Vivendo così si impara sempre, si diventa sempre diversi e nuovi e non ci si annoia mai. Vivendo così nulla è estraneo, incomprensibile, scandalizzante, inaccettabile: tutto (è) ha parte nella mia vita e tutto è un messaggio per me. Allora posso accogliere ogni esperienza, ogni incontro, ogni persona. Perfino i fatti più tragici, le malattie e i lutti, pur rimanendo tragici, hanno un significato per me, hanno qualcosa da dirmi e da farmi capire, sono maestri per la mia vita. Vivendo così la vita è veramente ricca e piena. E' chiaro che i Giudei non capiscono. Gesù dice "che se uno mangia questo pane vivrà in eterno" e "io darò la mia carne per la vita del mondo". Nei primi anni della chiesa era diffusa l'idea che i cristiani mangiassero carne umana (mangiavano il Cristo!) e addirittura i bambini. I Giudei banalmente si chiedono: "Ma come può costui darci da mangiare la sua carne?". I suoi stessi discepoli gli dicono (6,60): "Questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?". Sarx, carne, indica la realtà terrena. Mangiare la sua carne vuol dire cibarsi di Gesù in maniera molto reale, "carnale". Sono andato a casa da due amici e ho visto il loro figlio di alcuni mesi: come guardava la mamma! Quando guardava la sua mamma gli si illuminavano gli occhi e quando la mamma lo chiamava sorrideva e il suo volto si illuminava. La sua mamma era il sole, tutto per lui; la sua mamma era davvero il suo cibo. Qui Gv vuole indicare qualcosa del genere. Per molte persone nutrirsi di Dio è qualcosa di aleatorio, di spirituale, di etereo: una preghiera, una messa ogni tanto, un pensierino a Lui quando capita, la confessione di essere cristiani praticanti. Ma per Gv nutrirsi di Dio vuol dire cambiare vita, lasciare i vecchi modelli di comportamento, gli schemi antichi e perversi ed avere relazioni diverse e più sane. Nutrirsi di Dio vuol dire farlo entrare nelle pieghe e nelle fibre della nostra esistenza. Gv vuole mettere in guardia da un certo spiritualismo disincarnato. Per questo usa un termine così forte come mangiare (τρογο) nel senso di masticare, di triturare. Si tratta, cioè, di assimilare, di far proprio lo stile, il cuore e la mente di Gesù. Ma di diventarlo nella propria vita. Allora Gv dice: "Stai attento tu che vai a prendere l'eucarestia. Non è perché mangi il corpo di Cristo che mangi la carne di Gesù". Se il corpo di Cristo non ti cambia, non ti "altera" nel senso che ti fa altro, che ti fa pienamente te stesso, non scalfisce i tuoi modi di vivere e di pensare, non ti mette in discussione, tu puoi mangiare tutte le eucarestie che vuoi, ma non mangi la carne di Cristo. Troppo facilmente nella chiesa si è semplicemente identificato la carne di Cristo con la particola domenicale. Il che è vero, ma per Gv la carne di Cristo è ciò che provoca in te quell'incontro. Altrimenti è niente. Arturo Paoli dice: «La chiesa sa bene che ci sono persone o gruppi a cui bisognerebbe dire: "Statevene a casa", ci guadagnerebbero a non frequentare l'eucarestia, perché altro non fanno che venire a "mangiare la loro condanna". Ma a chi dovrebbe dire questo la chiesa? Lo dice ai concubini, ai divorziati, alle ragazze-madri, a quelli che hanno avuto complicazioni di tipo affettivo-sessuale. Prima di tutto la chiesa dovrebbe dirlo ai "coloni". "Non possono fare la comunione..." quelli che sfruttano gli operai, quelli che puntano senza pietà il dito e giudicano, quelli che rubano, quelli che non hanno misericordia, quelli che picchiano, quelli che si credono perfetti e giusti, quelli che non si lasciano toccare perché non vogliono lasciarsi coinvolgere, quelli che hanno in mano le armi fisiche, psicologiche, mediatiche, intellettuali e le usano narcisisticamente. A tutti questi dovrebbe dire: "Fuori di qui. Tante ostie ma niente carne di Cristo in voi".». Mangiare la carne di Cristo significa non fare tante comunioni, ma tanta comunione con me e con gli altri. In un condominio c'è una famiglia dove padre e madre "si pestano" regolarmente a sangue. I due figli piccoli, terrorizzati, urlano e chiedono aiuto. Ma nessuno dei condomini ha mai fatto niente: tutti se ne stanno zitti e muti perché è "meglio farsi gli affari propri e non andare incontro a casini". Si può rimanere in silenzio? Non ti tocca la cosa? Non ti senti interpellato? A scuola: si fa la gita. C'è un ragazzino extracomunitario che non ha (e non li ha per davvero!) i soldi per la gita. Ma lo lasciamo a casa solo per questo motivo? Posso dire: "Che lo facciano gli altri, perché dovrei aiutarlo io?". C'è un uomo che bestemmia, urla, impreca contro i suoi operai. Poi, da tanti anni, viene tranquillamente bello, bello, a fare la comunione. C'è una donna che è continuamente depressa, vede tutto nero e tutto contro di lei. Mangiare la carne vuol dire iniziare a dirsi: "Basta col piangermi addosso"; oppure: "Mi devo far aiutare, sono io che vedo tutto nero e non il mondo che è nero". Una madre è nervosa e "scatta via" per un niente con i figli. Certo non è mica a caso tutto questo: quando era piccola i suoi genitori (suo padre soprattutto) l'hanno picchiata di brutto e severamente per ogni nonnulla. Dentro ha una rabbia e un'aggressività a fior di pelle, pronta per scoppiare ad ogni istante. Ma vogliamo lasciare che le cose vadano avanti sempre così? Mangia la carne!!! Un uomo è terrorizzato dall'esprimersi in pubblico e tra amici. A quattr'occhi lo fa', ma in gruppo è bloccato. E' così perché ha avuto genitori autoritari. Con suo padre poteva parlare solo se glielo permetteva, tanto che fino a quindici anni doveva alzare la mano per potergli parlare. La madre assecondava il comportamento del marito dicendo al figlio: "Il papà è molto impegnato e stressato dal lavoro. Dobbiamo non farlo arrabbiare!". Mangiare la carne vuol dire che adesso però, anche se il passato non lo possiamo più modificare, tentiamo di cambiare lo schema di paura che ci attanaglia. C'è un uomo che quando una qualsiasi persona parla lui deve sempre appuntare qualcosa, trova sempre qualcosa che non va, ha sempre da ridire. E' chiaro: deve sempre mettere in luce che lui sa di più, che lui è più brillante, che lui è più. Si sente inferiore ed ha bisogno di dimostrare la sua superiorità sminuendo gli altri. Mangiare la carne vuol dire riconosco la mia competizione ed inizio a modificarla. Voi che siete qui in chiesa e di ritorno a casa avrete fatto la comunione. Tra l'altro non si capisce perché molta gente non la faccia: è come andare dall'innamorata e non darle un bacio. Quando si ama uno, si ha voglia di stare con lui, di parlargli, di toccarlo, di "mangiarlo". Le madri (o gli innamorati) al proprio figlio dicono: "Ti mangerei". Nell'amore noi vogliamo unirci all'altro. Non si capisce perché molti vengono in chiesa e non fanno la comunione. E' un po' come andare a trovare uno e non salutarlo, non parlargli. Ma perché ci vai, allora? Voi che siete qui in chiesa di ritorno a casa avrete fatto la comunione, dicevamo, ma chissà se avrete mangiato la carne di Cristo o se avrete, invece, solo ingurgitato un po' di pane azzimo? Le espressioni che seguono nel vangelo si capiscono a partire da questo significato di carne di Gesù. Gv dice che chi mangia la carne "ha la vita", "ha la vita eterna", "lo resusciterò nell'ultimo giorno", "dimora in me ed io in lui", "vivrà per me", "vivrà in eterno". Gv distingue tra βιοσ vita fisica e ζοέ (zoè) che indica il principio della vita, la vitalità, la pienezza della vita. Tra l'altro in Gv termini come "vita, vivificare, rendere vivo" ricorrono cinquantadue volte nel suo vangelo: ogni settimana abbi a cuore che la tua vita sia viva, la vita ti abiti e pulsi dentro. Per G che la vita eterna non è tanto o solo la vita nell'al di là contrapposta alla vita nell'al di qua. Ma è la vita vera, la vita dove Cristo vive, dove Lui abita. E solo chi ha la vita (ζοέ) potrà entrare nel regno della Vita. E a chi vuole la morte sarà data la morte. La ζοέ è la vita viva: "Sei un vivente, vivi come tale". Quante persone sono dei morti viventi: sono in vita, l'ufficio anagrafe non ha ancora ricevuto la data di morte e in cimitero non hanno ancora trovato ospitalità eppure sono già morti. Quando tu non ti commuovi più sei morto. Il tuo cuore è diventato come una pietra e tu non sai più piangere, più intenerirti, più provare misericordia. La vita non scorre in te. Quando non provi più dolore per niente, quando i sentimenti non affiorano più, quando sei una maschera bianca dove non c'è più nessuna emozione, la morte ha già preso dimora presso di te. Quanto tu non sai più appassionarti per un'idea, per una proposta, per una scoperta, ma tutto ti scivola via senza sussulti, con la più totale indifferenza, allora sei morto. Quando capitò la tragedia dell'11 settembre dissi particolarmente sconvolto ad una persona: "Hai sentito cos'è successo?". "Cos'è successo?". E gli raccontai. E lui con distacco totale: "A me in tasca non viene niente!". Quando non ti sai più innamorare e il tuo cuore non vibra più, non freme più; quando non sai emozionarti ogni tanto di fronte a chi ti ama e non ti vien voglia di far qualche piccola pazzia per chi ami, allora non è passato l'amore è che tu ti sei chiuso, hai razionalizzato tutto, sei morto dentro. La vita non scorre più in te. Quando non riesci più a ridere con gli amici, a ironizzare sui tuoi errori e sui tuoi difetti, a sorridere bonariamente dei comportamenti della gente, e, invece, sei sempre serio e impassibile, sei morto. La vita non scorre più in te. Quando tutto è pesante, tutto è nero, tutto è negativo, tutto è piatto, e non c'è un po' di entusiasmo, di slancio in quello che fai o in quello che vivi, allora la morte ha già preso dimora presso di te. Quando non ti sai divertire, quando non sai giocare, quando non sai lasciarti andare, ma sei sempre controllato, sempre sulla difensiva, sempre "sulle tue", allora la morte ha già preso possesso di te. Giorgio Faletti in una canzone dice: "Che la morte mi colga vivo". Già, che la morte ci colga vivi! Non si tratta di essere in vita ma di essere vivi. Guardate gli occhi e i volti di molte persone: "Dov'è finita la vita?". "Vivere in maniera inconsapevole, senza vita, è mortale per l'anima: alcuni muoiono prima che si presenti la morte del corpo, perché la morte si è stabilita nella loro anima... Queste persone sono costantemente in movimento per sfuggire ai problemi; danno l'impressione di essere perseguitate e sono tutta una maschera di paura..." (Jung). In un paese, come in tutti i paesi del mondo, la morte giorno dopo giorno, ognuno a suo tempo, si prendeva tutte le persone. Chi a trent'anni, chi a settant'anni, chi a novant'anni, ma arrivava a bussare sulle case di tutte le porte. Solo dal vecchio Alfredo non bussava mai. Erano passate duecentosessantatre primavere e non aveva mai bussato. Così incrociando la signora morte un giorno il vecchissimo Alfredo gli disse: "Perché bussi da tutti e non da me? Perché non sei venuta ancora a prendermi?". "Non ho bisogno di prenderti perché tu sei già morto da duecentosessanta anni!". Mi alzo ogni mattina e mi devo dire: "Anche oggi voglio nutrirmi di vita vera". Così scelgo di guardare al lavoro come un luogo dove posso esprimere qualcosa di me piuttosto che un luogo anonimo dove subire. Così scelgo di tirare fuori quello che ho dentro piuttosto che di "mandare giù" e di ingoiare. Così scelgo di dire a chi amo che lo amo, e di dirglielo con tutta l'intensità che sento. Così scelgo di piangere quando c'è da piangere, di ridere a crepapelle quando c'è da farlo, di divertirsi quando c'è da divertirsi e di stare nella tristezza quando c'è da stare. Così scelgo di giocare con i miei figli, di struccarmeli, di "sentirli", di ridere insieme, piuttosto che avere una casa in perfetto ordine e, comunque, tralasciando ben volentieri qualcosa per divertirmi con loro. Così scelgo di fare una passeggiata alla luce piuttosto che di "stravaccarmi" davanti al televisore. Così scelgo di non fare discorsi da osteria, per "sentito dire" ("Sai che si dice; sembra che quella"), di gettare illazioni non vere, di non fare i soliti discorsi da bar, ma di provare ad entrare dentro alle situazioni, di provare ad entrare e a mettermi nei panni dell'altro, a chiedermi cosa proverà lui. Così scelgo di non tirare conclusioni affrettate. "Ho visto la Margni (una signora di un paese)", dico io; "Sì, sì che donnaccia!", dice una catechista. Io faccio un po' di silenzio e le dico: "Sono un suo grande amico!". Molte persone quando sentono un nome partono con lo schema, con il pregiudizio: politico-ladro; prete-frustrato; cristiano-"basabanchi", ecc. Così scelgo di mangiare ciò che mi piace e che mi fa bene. Così scelgo di prendermi ciò che mi piace fare, di stare con le persone che mi fanno star bene o con le quali mi piacerebbe stare; così scelgo di riposarmi, di divertirmi e di realizzare i miei sogni. Ogni mattina mi alzo e mi dico: "Io voglio vivere. Voglio vivere per davvero; non voglio essere un soprammobile dell'esistenza. Io voglio sentire, vibrare, appassionarmi, amare, ridere e piangere, entusiasmarmi e angosciarmi, voglio sentire tutta l'esistenza in tutta la sua ricchezza. Io voglio la vita vera, la zoè (ζοέ), oggi, domani e sempre!". Pensiero della Settimana A chi posso dire: "Prendi e mangiami". Sono un dono per chi? |