Omelia (19-08-2012) |
mons. Roberto Brunelli |
La sapienza si è costruita la casa Il discorso che andiamo leggendo da alcune domeniche, il discorso pronunciato da Gesù nella sinagoga di Cafarnao, prosegue oggi con un brano (Giovanni 6,51-58) che insiste sul concetto-chiave: "Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno". Sarà opportuno, in proposito, ricordare che egli parlava a uomini di duemila anni fa, quando certe parole avevano un significato non proprio uguale a quello di oggi. E' il caso di "carne": invitando a cibarsi della sua carne, Gesù non intendeva invitare all'antropofagia, neppure in senso simbolico; il termine "carne" designava una persona vivente (per dire che il Figlio di Dio si è fatto uomo, lo stesso evangelista usa l'espressione "Il Verbo si fece carne"). Mangiare di lui significa stabilire un'intima connessione con lui, una comunione di vita, un'amicizia profonda nel senso che a questo rapporto tra gli uomini davano anche i pagani: idem velle idem nolle, dice Sallustio, cioè due sono amici quando vogliono le stesse cose e non vogliono le stesse cose. All'amicizia con lui, Gesù ha dato la forma visibile e sensibile dell'Eucaristia: che è dunque l'espressione da parte sua dell'offerta-invito a condividere la sua vita, a fare nostri i suoi pensieri, i suoi sentimenti, la sua volontà, le sue prospettive per il futuro. Ecco perché nella celebrazione dell'Eucaristia, cioè nella Messa, la comunione è preceduta dal memoriale del suo sacrificio redentore e, prima ancora, dall'ascolto della sua Parola: per conoscere chi è, che cosa ha fatto e che cosa continua a dire Colui che si va ad accogliere sotto le specie del Pane, per vivere in pienezza la relazione con lui. "Mangiare la carne" del Figlio di Dio comporta dunque anche non pretendere di essere più intelligenti di lui, di sapere meglio di lui come condurre la nostra vita; comporta il fare nostra la sua sapienza, che entrando nel mondo egli ha messo così largamente a nostra disposizione. Lo dice anche la prima lettura (Proverbi 9,1-6), con una plastica personificazione della Sapienza divina, immaginata costruirsi una casa tra gli uomini e invitarli a un generoso convito: "La sapienza si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne. Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola. Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: ‘Chi è inesperto venga qui!' A chi è privo di senno ella dice: ‘Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l'inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell'intelligenza'". Alla saggezza accenna anche la seconda lettura (Efesini 5,15-20): "Fate molta attenzione al vostro modo di vivere, comportandovi non da stolti ma da saggi". E a queste parole l'apostolo Paolo aggiunge un esempio, una delle possibili concrete applicazioni: "...da saggi, facendo buon uso del tempo". A proposito dell'uso del tempo: è proprio vero, pregi e difetti degli uomini non hanno età, nel senso sia che si riscontrano in ogni stagione della vita, sia che riguardano gli uomini d'oggi come quelli di duemila anni fa. Spesso non lo si percepisce, ma il tempo è un valore, e non banalmente per il detto popolare che il tempo è denaro. Il tempo è come un baule vuoto che ci è stato donato; dipende da noi che cosa metterci dentro: se nulla, se cose positive, se cose negative. Dando per scontata la seconda e la terza ipotesi, non sempre si considera la prima: a fronte delle tante belle cose che si possono fare, quanto tempo va perduto! Quante chiacchiere a vuoto, quante ore davanti alla tivù, quante letture frivole, quanti sbadigli! All'epoca di Paolo c'era evidentemente chi del tempo non faceva buon uso: il richiamo vale intatto anche duemila anni dopo. Almeno, per chi cerca la saggezza. |