Omelia (02-09-2012)
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Dalle labbra al cuore: il cammino della vita cristiana

COMMENTO ALLE LETTURE
a cura di padre Gianmarco Paris

Il nostro cammino di cristiani non è diverso da quello di tutti gli uomini, che cercano la felicità, cioè il senso profondo di ciò che fanno. La differenza è che noi crediamo che questo senso, questa felicità - mentre la cerchiamo con tutte le nostre forze - ci viene donata; è da accogliere come un dono. È per questo che, di domenica in domenica, ci mettiamo in ascolto della Parola del Signore e ci sediamo alla sua mensa per riceverlo in alimento.
La liturgia ha il compito di servirci questa parola poco per volta, secondo la nostra capacità di accoglierla, e accompagnando i ritmi e i tempi del nostro cammino. In alcune parti del mondo il mese di settembre segna la ripresa dei ritmi sociali del lavoro, della scuola, e la Chiesa segue questo ritmo con l'inizio dell'anno pastorale. In altre parti (come nel mio caso in Mozambico), stiamo entrando nell'ultima parte dell'anno pastorale e sociale, che segue i ritmi dell'anno solare. Dall'una e dall'altra parte dell'equatore gli uomini e i cristiani non smettono di cercare la felicità, e Gesù non smette di aprire loro il cammino che per primo ha seguito quando è venuto tra noi.
La Chiesa tutta si sta preparando ad iniziare l'anno della fede, che sarà aperto dal Sinodo sulla nuova evangelizzazione, per ricordare che 50 anni fa Papa Giovanni XXIII apriva il Concilio Vaticano II e iniziava nella Chiesa l'epoca di un nuovo incontro del Vangelo con il mondo moderno. Se uno dei frutti del Concilio è quello di aver avvicinato di più i cristiani alla Parola di Dio, allora abbiamo un modo semplice e sicuro di partecipare realmente a questo Giubileo: ascoltare con serietà e intelligenza, praticare con la vita la Parola che ogni domenica ci è data.
Mentre seguiamo in forma di racconto la vita di Gesù, come l'evangelista Marco ce l'ha trasmessa, sappiamo che in ogni pagina siamo messi di fronte al mistero centrale della Pasqua di Gesù (il passaggio dalla morte alla vita, dalla schiavitù alla libertà), e siamo chiamati a chiederci come lo viviamo nella nostra vita. Anche le letture di questa domenica ci conducono in questo percorso.
Dopo una ripetuta frequentazione con il Vangelo di Giovanni, dal quale abbiamo ascoltato il lungo discorso di Gesù sul pane della vita, Marco ci fa incontrare Gesù che durante il suo ministero in Galilea si confronta con alcuni farisei (uno dei gruppi religiosi del giudaismo del suo tempo) sulla questione "religiosa" della purità rituale. A noi dice poco questo tema, ma per un giudeo era una dimensione centrale del suo rapporto con Dio. Occorre tener presente il libro del Levitico, dove Dio dà al popolo leggi per vivere in modo diverso dagli altri popoli, giacché è un popolo riscattato dalla mano dell'Egitto e appartiene ad un nuovo Signore, che è Dio. Visto che Dio è "santo" (aggettivo che significa separato, distinto dal resto), il popolo che gli appartiene e che segue la sua alleanza deve essere "santo", e ciò si ottiene e si manifesta mediante una serie di pratiche liturgiche e rituali. Come si può capire, in un campo come questo non è facile distinguere quello che è la volontà di Dio e le forme umane di realizzarla, molto condizionate dai tempi e luoghi; si capisce anche che con il passare del tempo queste pratiche, allontanandosi dal loro inizio, corrono il rischio di offuscare il loro senso. Questo è quanto vediamo nel vangelo di oggi: i farisei si lamentano con Gesù perché non insegna e non fa osservare ai suoi discepoli le regole di purità. Gesù - come sempre - approfitta per toccare la questione alla radice, e denuncia l'ipocrisia nascosta sotto l'osservanza religiosa, citando un famoso passaggio di Isaia che contrappone il culto fatto con le labbra al desiderio che nasce nel cuore (e si realizza nei comportamenti). Gesù denuncia il grave errore dei farisei di dare più importanza ai "precetti" elaborati dalla tradizione, perdendo di vista il senso profondo della "legge" rivelata a Mosè e trasmessa nei primi libri della Bibbia. La prima lettura contiene un passaggio del testamento di Mosè al popolo, che è chiamato a praticare la legge ricevuta da Dio senza alterarla: essa è giusta, è fonte di saggezza e permette all'uomo sentire Dio vicino. Gesù denuncia l'ipocrisia, cioè il fatto che vivono usando delle maschere: essi mostrano a Dio un'obbedienza esteriore (compiendo esattamente i precetti), quando la loro vita reale segue altri valori, molto diversi dalla legge divina. Il gesto religioso diventa l'opposto di quello che dovrebbe essere: invece di avvicinare a Dio, è la maschera di cui ci si serve per vivere lontani da lui.
Continuando la sua catechesi Gesù insegna che la "purità", cioè la santità, la somiglianza dell'uomo a Dio non è condizionata da quello che entra in lui (i cibi permessi o non permessi), ma da quello che esce e si manifesta in atteggiamenti e comportamenti. Quando dal cuore umano escono desideri segnati dall'egoismo (come gli esempi che Gesù offre), essi producono il peccato. L'altro caso, positivo, è sviluppato dalla lettera di Giacomo che ascoltiamo nella seconda lettura: quando il cuore umano accoglie il dono gratuito della Parola di Dio (in un certo senso ciò corrisponde alla legge, l'insegnamento per la vita), e la fa crescere, allora il suo comportamento "religioso", cioè la sua risposta a Dio, è quella che Dio desidera, esemplificato nel soccorso agli orfani e alle vedove, che significa l'attenzione concreta alle persone che sono nel bisogno.
La fede cristiana vive nella misura in cui passiamo dall'esteriorità dei gesti religiosi (di per sé buoni, ma ambigui) alla sostanza del nostro comportamento, che è santo nella misura in cui esso corrisponde a quello di Gesù. Avvicinandoci all'anno della fede siamo chiamati a purificare le nostre idee e i nostri comportamenti circa il rapporto con Dio: se diamo attenzione alle parole e all'esempio di Gesù ci preoccuperemo meno dell'esteriorità e più dell'interiorità; cercheremo di ascoltare meno i precetti umani e più la legge di Dio; saremo santi non tanto per quello che le nostre labbra pronunciano, ma per quello che i nostri comportamenti dicono.