Omelia (02-09-2012)
Ileana Mortari - rito romano
Dal cuore degli uomini escono le intenzioni cattive

Nei versetti 1-23 del 7° cap. di Marco troviamo uno dei pochi esempi dell'insegnamento di Gesù riferiti nel secondo vangelo (gli altri si trovano in Mc.4,1-34: le parabole e in 13,1-37: il discorso escatologico); in particolare nella pericope scelta per la liturgia, si tratta di due argomenti: il contrasto tra la Legge di Dio e le tradizioni degli uomini; la questione del puro e impuro.

A) Dice Gesù: "Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini"
Il comandamento di Dio è la famosa Torah, cioè la Legge contenuta nei primi cinque libri del Primo Testamento; essa non era tanto un elenco di aride prescrizioni, ma l'espressione dell'incontro tra la volontà del Dio "vicino" ai suoi figli e l'adesione gioiosa della libera volontà dell'uomo, che poteva trovare Jahvè non nei cieli lontani, ma appunto nella legge donata al popolo. Più specificamente, il comandamento per antonomasia era il passo di Deut.6,5: "Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze:"

Invece la "tradizione degli uomini", o meglio "degli anziani", è la Legge orale, cioè quel complesso di norme trasmesse a voce da maestro a discepolo, che si facevano risalire allo stesso Mosè e che sarebbero confluite nella Mishnà; tale tradizione era nata allo scopo di interpretare, approfondire, difendere e venerare la Torah e di renderla praticabile nelle molteplici circostanze della vita: si voleva mostrare come applicare, caso per caso, la Legge divina.

Ma, cos'era successo? Si era arrivati a porre "la tradizione degli uomini" sullo stesso piano della Legge di Mosè, visto che anch'essa testimoniava la volontà divina; tale tradizione aveva enucleato dalla Torah scritta ben 613 precetti (!), che per la gente comune costituivano un peso gravissimo e praticamente impossibile da osservare. E tuttavia gli ebrei che non vi si attenevano erano designati come "popolo ignorante della Legge" (Gv.7,49) e disprezzati come trasgressori dei divini comandamenti. In pratica solo i Farisei osservanti erano in regola con le tradizioni e pertanto si "sentivano a posto" con Dio, certi dello sua compiacenza e sicuri di aver parte un giorno alla salvezza nel "secolo futuro". E poi spesso le scuole rabbiniche avevano complicato la Legge con aggiunte o distinzioni indebite.

Qual era il risultato di tutto ciò? Che, come appunto nota Gesù, osservando le tradizioni degli uomini, si era arrivati a trascurare il comandamento di Dio: ne è un esempio l'assurda pratica del "korbàn", citata dal Maestro nel v.11 (non presente nella pericope). E soprattutto veniva meno quell'amore per Dio ricordato da Deut.6,5, che coinvolgeva totalmente il fedele.
Bene aveva detto Isaia:"Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me" (v.6)

B)La seconda questione riguarda un tema basilare per la mentalità giudaica: la distinzione tra "puro" e "impuro". La purità, concetto comune alle religioni antiche, è la disposizione richiesta per avvicinarsi alle cose sacre. Nella Bibbia è puro tutto ciò che avvicina a Dio e favorisce il culto; impuro ciò che allontana da Lui e dal culto: questa purità legale era simbolo della purità morale richiesta dal rapporto con Dio (cfr. Lv.11,44).

Tra le norme della tradizione orale si dava particolare importanza a quelle riguardanti le carni (distinguendo tra animali puri, cioè commestibili, e impuri, non commestibili), nonché a quella che prescriveva di lavarsi le mani prima di prendere cibo. In origine, essa riguardava soltanto i sacerdoti nell'ambito del banchetto sacro (cfr. Nm.18, 8-13), prima del servizio liturgico; ma in seguito, soprattutto nei circoli farisaici, fu estesa ai laici e ai pasti profani, con la motivazione che anche il prendere il cibo doveva essere inteso come un atto religioso, e che in tal modo si preparava a Dio un popolo "sacerdotale" perfetto, allo scopo di affrettare - se possibile - l'era del Messia. Anche questa "lavanda delle mani" (non paragonabile al nostro lavarci come misura igienica, ma segno di rispetto per il culto) conteneva un richiamo simbolico alla purezza del cuore e della vita, come dice il Sal.26: "lavo nell'innocenza le mie mani"; per l'ebreo osservante era segno della propria disponibilità a conservarsi senza peccato nella fedeltà alla legge di Dio.

Gesù, rivolgendosi alla folla, fuoriesce con un'affermazione davvero rivoluzionaria, che doveva essere sembrata un colpo mancino contro uno dei punti principali della tradizione ebraica: "Non c'è nulla fuori dell'uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall'uomo a renderlo impuro" (v.15) e successivamente spiega ai discepoli che i cibi non possono rendere impuro l'uomo perché attengono alla sola sfera materiale del corpo; "così rendeva puri tutti gli alimenti" (v.20), cioè abolisce tutti i tabù e le distinzioni tra bene e male (= puro e impuro) desunte dall'esterno; è invece dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini, che escono i propositi di male, esemplificati in 12 vizi molto gravi: sono essi a rendere impura la persona.

Ricordiamo che all'origine dell'intervento di Gesù c'era l'osservazione dei farisei circa il fatto che i discepoli del Maestro non avevano osservato il precetto della "lavanda delle mani". Ora, anche questa prescrizione, come le altre numerose prima ricordate, aveva per lo più perso il valore di richiamo simbolico alla purità morale e si era trasformata in un ossessivo legalismo ed obbligo esteriore fine a se stesso.

Gesù intende ricondurre le pratiche religiose al loro vero significato, fare piazza pulita di una pletora di prescrizioni ormai prive di senso (visto che le molte osservanze esteriori possono far dimenticare ciò che più conta: la rettitudine, la giustizia e l'amore), di conseguenza liberare la gente comune dal fardello di centinaia di osservanze impossibili da realizzare, e infine infrangere quella barriera che separava rigidamente il "popolo santo ed eletto" dagli altri. Come opera tutto ciò?

Anzitutto, come Colui che è venuto non ad abolire, ma a dare compimento alla Legge anticotestamentaria, Egli mostra come vanno intesi i testi di Lv.11 e Deut.14 contenenti le norme riguardanti i cibi puri e impuri; pur contrastando con Gen.9,3 ("Ogni essere che si muove e ha vita vi servirà da cibo"), tali norme si erano rese necessarie in Israele (insieme ad altre regole di purità) per difendersi ed esprimere la propria assoluta separatezza dai culti pagani che facevano largo uso di certi animali, ritenuto per questo "impuri": il Nazareno non ripudia quei testi, ma ne svela il significato più pieno, profondo; e li relativizza, perché ormai era tempo di superare la rigida separazione rispetto ai pagani.

In secondo luogo Egli richiama l'attenzione sul cuore dell'uomo, che nel linguaggio biblico è la sede dei pensieri, della volontà, dei sentimenti; è il luogo delle decisioni fondamentali, dove si distingue tra vero e falso, dove avviene la scelta tra il bene e il male, tra Dio o noi stessi. E' dal cuore che proviene il bene e il male deciso dalla persona, e quindi è solo dal cuore che provengono tutti quei vizi (elencati in numero di 12 e corrispondenti ad infrazioni dei comandamenti di Dio a livello di intenzioni e di azioni concrete) che davvero contaminano il soggetto e chi entra in contatto con lui. Se l'uomo non evita ciò che - uscendo da lui - lo rende cattivo, è sempre impuro e il segno di astenersi da certi cibi non serve a nulla. Infatti la vera impurità non si contrae attraverso il cibo, ma concependo "pensieri cattivi". Opportunamente J. Schmid ha osservato che nella drastica affermazione di Gesù circa il cuore "si trova il principio fondamentale di tutta la morale".
Pertanto, sulla questione del puro e dell'impuro, il Maestro insegna - sulla linea profetica - a posporre l'impurità legale a quella morale, la sola che veramente importi.

Infine, dichiarando puri tutti i cibi, il Nazareno abolisce quei tabù alimentari che nelle prime comunità cristiane avrebbero rappresentato l'ostacolo principale alla comunicazione tra giudei e pagani. E difatti subito dopo Marco ci presenta Gesù che si trasferisce in un territorio abitato da gentili e che entra senza problemi in contatto con loro. La stessa cosa farà Pietro (dopo la visione illuminante di Atti 10,11-16), quando deciderà di accettare l'invito del centurione romano Cornelio.