Omelia (16-09-2012) |
padre Gian Franco Scarpitta |
Nella croce, missionari e partecipi di Cristo Il capitolo 16, 13-23 del Vangelo di Matteo riferisce lo stesso episodio descritto oggi da Marco, con la sola variante topografica (secondo Matteo Gesù è infatti già arrivato in terra di Cesarea e non ancora in viaggio) e con l'aggiunta, nel frammezzo del discorso, della nomina di Pietro a fondamento (Cefa) della Chiesa. Questo è l'unico episodio che differenzia la redazione di Marco (evangelista discepolo di Pietro) da quella di Matteo (apostolo diretto di Gesù), il quale afferma la verità di una rivelazione divina di cui Pietro è stato reso destinatario, per la quale adesso merita di essere costituito primo apostolo, nonché fondamento della Chiesa universale. In ambedue gli scritti evangelici Gesù confronta direttamente il parere della gente comune intorno alla sua identità e l'opinione dei suoi interlocutori diretti, ottenendo che uno di essi, Pietro, lo professi come il Cristo, cioè il Messia. Sempre in entrambi i racconti di Marco e di Matteo, viene riferito quello che gli studiosi definiscono il "segreto messianico", cioè la proibizione severa rivolta da Gesù ai suoi apostoli di rivelare ad altri la sua identità di Messia: secondo l'interpretazione più attendibile di tale segreto, Gesù vuole evitare sensazionalismi vani nei suoi confronti. Tende ad allontanare plauso, vanagloria, autoesaltazione perché si aspetta che la gente, attraverso la fede nella sua parola divina e nei suoi insegnamenti, comprenda da se stessa di avere a che fare con il Salvatore Unto di Dio e non con un uomo qualsiasi. Ma se c'è un particolare che più balza agli occhi nel confronto fra i due testi evangelici, esso risiede nella secca risposta di Gesù allo stesso Pietro: "Allontanati da me, Satana. Tu pensi secondo gli uomini e non secondo Dio." Nonostante abbia meritato di essere prescelto quale "pietra" di fondamento, Pietro infatti viene redarguito perché si è mostrato ostile e refrattario dall'accogliere il mistero di salvezza che il suo Signore intende realizzare nella croce. Il Messia manifesterà infatti la sua potenza non negli atti di sconvolgente onnipotenza o nel predominio della propria autoaffermazione indomita e gloriosa, ma semplicemente nell'assurdità umanamente sproporzionata della morte sul legno. Pietro vorrebbe distoglierlo dal recarsi a Gerusalemme, luogo del suo supplizio, per un'iniziativa di amicizia e di filantropia senza dubbio lodevole ed allusiva, ma che è ben lontana dal mostrare di aver concepito in Gesù il Salvatore mandato dal Padre. In sintesi è come se dicesse: "Tu Pietro sei avvinto dal maligno che ti sta seducendo con pretesti che solo in apparenza sono di bene, ma che in realtà sconvolgono i disegni salvifici di Dio." L'umanità ragiona in termini di vendetta, astio e riprovazione; il concetto di giustizia è molte volte fuorviato dall'ira e dall'astio nei confronti di chi ci ha fatto un torto e le pulsioni e le istintività predominano sulla ragionevolezza e sul buon senso. L'agire umano impone la forza bruta come coefficiente per dominare gli avversari, si affanna nella corsa agli armamenti e alle posizione comode di dominio sulle masse evitando in ogni caso rischi e difficoltà; la logica del Messia che si è incarnato per la nostra salvezza è invece ben differente perché ha il contrassegno dell'umiltà e dell'amore, uniche armi con le quali tende a combattere i propri nemici. E quale massima espressione di umiltà e di amore potrà mai essere più eloquente della croce? In essa Gesù mostra la propria potenza in ciò che comunemente noi riteniamo assurdo, impensabile e inverosimile, qualificandosi secondo la parola di Isaia come "l'Agnello votato al macello senza possibilità di difesa", il cui sangue sarà però prezioso per il riscatto dell'umanità. La croce è luogo dell'autoconsegna di Dio all'uomo nel suo Figlio, massima espressione della vera rivelazione. Un Dio che mostrasse l'arma segreta del miracolo o della forza bruta per piegare al suo cospetto i propri nemici non sarebbe differente da un eroe dei fumetti per il quale ogni vittoria è sempre facile e assicurata e non sarebbe affatto Dio per il solo fatto che si abbasserebbe alla condizione eccessivamente umana, fino ad assumere di essa la logica e la mentalità. Invece, Dio in Cristo preferisce prendere le distanze dall'umano inteso nel senso di ridicolo e di meschino per intraprendere nei suoi confronti nient'altro che l'intensità dell'amore che salva perché si sacrifica e si immola. La croce è quindi necessaria perché si adempia il nostro riscatto e si evitino le subdole seduzioni del maligno; come pure è indispensabile che essa costituisca il sinonimo di radicalità evangelica diventando la prerogativa di ciascuno, come afferma lo stesso Cristo che la pone come "conditio sine qua non" del nostro discepolato: "Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda ogni giorno la propria croce e mi segua" L'accoglienza della croce che nella vita quotidiana ci si presenta sotto i molteplici aspetti ben noti di sofferenza e di dolore molto spesso immeritati e improvvisi non può che intendersi motivo di vanto e occasione di nobilitazione umana, di tempra e di coraggio, anche se simili concetti in taluni casi sembrano ripugnanti. Proprio il dolore, la prova, le ingiustizie e i soprusi che altri ci propinano sono il luogo di esercizio della fiducia e della speranza che si dischiude dal dolore nonché il punto di incontro fra Dio e l'uomo poiché proprio in questa nostra croce Dio in Cristo ci si rende solidale. Ma soprattutto, l'esercizio della croce è ancora più foriero di benefici quando si contraddistingue con la rinuncia a noi stessi, alle nostre scelte e alle posizioni personali per assumere quelle di Cristo: non è facile abbandonare le proprie opinioni, pensieri e atteggiamenti sopratutto di comodo o di vantaggio quando, specialmente nella vita della Chiesa, questi non collimano con la trasparenza evangelica o con la volontà del Signore e non di rado mal si sopporta di doverci immolare in determinati abbandoni e rinunce. Ma proprio in questo si evince la certezza della nostra vittoria commisurata alle lotte e alle privazioni e solo in questa prospettiva - il sacrificio e il dolore- si saggia il vero discepolo che merita il traguardo della gloria. Nel crocifiggerci con Cristo, in ogni caso e sotto qualsiasi aspetto, mentre partecipiamo alla sua passione di immolazione per la redenzione, ci rendiamo partecipi della salvezza degli altri, nell'esaurire in noi stessi quanto manca ai patimenti dello stesso Signore. La croce ci rende insomma missionari e partecipi della redenzione e della salvezza ma soprattutto ci introduce al traguardo certo della gloria e della risurrezione futura. |