Omelia (16-09-2012) |
mons. Antonio Riboldi |
Essere discepoli esige fede forte e coraggiosa Leggendo la Parola di Gesù, oggi, si ha l'impressione di un confronto netto da quanto pensavano di Lui i Suoi, rispetto a ciò che Egli proponeva se si voleva veramente essere Suoi discepoli. Forse gli Apostoli vedevano in Gesù, che aveva Parole di verità sorrette dalla potenza dei miracoli, un domani qui in terra pieno di gloria. Erano davvero poveri, gli Apostoli: pescatori senza un domani... assomigliavano a tanta gente di oggi che non ha più nemmeno la voglia o la forza di 'sognare', consapevole che i suoi sono spesso solo castelli in aria, schiacciata dalla fatica della ferialità o, come altri, guidati solo da un sogno di grandezza umana, cullata a volte in modo sfacciato e senza scrupoli, (un mondo che non aveva posto nelle aspettative, semplici, degli apostoli) che finisce sempre per lasciare l'amaro in bocca. Solo chi ha avuto la fortuna di nascere e vivere in famiglie, dove la fede era al primo posto, senza false ambizioni, può capire la bellezza di non avere sogni da uomo, ma desideri di realtà celesti. Da piccolo vivevo in una famiglia numerosa e povera. Non potevamo coltivare sogni di grandezza, cui purtroppo tanti bambini fin da piccoli vengono educati. Si viveva la semplicità dei poveri, materialmente, ma una grande ricchezza di fede, di amore... ed eravamo felici. Oggi pare tutto diverso: si ha tutto, almeno nel nostro mondo del benessere, e si vive spesso il vuoto... La domanda fondamentale è quindi: 'Quali sono i tempi migliori per un uomo?'. I tempi in cui i sogni terreni non vanno oltre la bellezza fisica, lo star bene e contare umanamente nella società o il tempo della semplicità evangelica, che fa spazio a Dio, alle virtù, alla generosità e all'amore? Il Vangelo di oggi mostra la diversità di prospettive tra Gesù e Pietro, in cui spesso ritroviamo noi stessi. Racconta l'evangelista Marco: "In quel tempo Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarea di Filippo, e per via interrogava i suoi discepoli dicendo: 'Che dice la gente che io sia?'. Ed essi risposero: 'Giovanni il Battista, altri poi Elia e altri uno dei profeti. ' Ma egli replicò: 'E voi chi dite che io sia?'. Pietro gli rispose: 'Tu sei il Cristo'. E impose loro di non parlarne con nessuno". Ed ecco che Gesù, conoscendo i pensieri e le profondità del cuore dei Suoi, con fermezza li strappa dai falsi sogni e dalle sbagliate aspettative che pongono su di Lui, sorprendendoli: "E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, per venire ucciso e dopo tre giorni risuscitare. Gesù faceva questo discorso apertamente. Allora Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma Gesù, voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: 'Lontano da me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini! ". Convocata la folla, insieme ai suoi discepoli, disse loro: 'Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuoi salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà." (Mc. 8,27-35) Pietro amava tanto Gesù, al punto da aver lasciato tutto per seguirlo e, forse, con gli altri apostoli, si attendeva qualcosa di diverso, come i nostri 'sogni' troppo umani. Non aveva ancora le prospettive di Vita del Maestro: una visione divina, eterna, di grande coraggio nel diffondere il Vangelo, soprattutto non poteva avere la disposizione a mettere a rischio la stessa vita terrena, per la Vita eterna, come avverrà dopo il Dono dello Spirito Santo, nella Pentecoste. Possiamo comprendere la perplessità sua e degli Apostoli, che diverrà paura e fuga il giorno dell'arresto di Gesù e durante la Sua passione e morte... come fossero cadute le speranze che avevano coltivato. Sarà lo Spirito Santo a chiarire il vero disegno di Dio su di loro, al punto che dopo la Pentecoste saranno uomini diversi, davvero discepoli del Maestro: scomparsa la paura, affronteranno ogni tipo di disagio, di sofferenza, di persecuzione, di prova, fino al martirio. Capita anche a noi, a volte, di concepire la nostra fede, come una sorta di 'sicurezza', che viene sì da Dio, ma quasi come una 'garanzia' contro le difficoltà della vita. Ma sappiamo tutti che nessuno può sfuggire alla sofferenza e al dolore o anche a momenti di grande angoscia, legati al nostro essere creature fragili, soggette al limite e alla precari età di questa nostra vita terrena, che si manifesta in tanti modi. Sono momenti in cui - se siamo credenti - diciamo che 'Dio ci sta mettendo alla prova' o che 'è assente', o, peggio ancora, che 'ci sta punendo e castigando'.... quasi rendendo Dio complice della malattia, delle difficoltà, del male. Sono momenti bui, come quelli della sera della cattura di Gesù, momenti in cui, come gli apostoli, non sappiamo vedere che, proprio in Gesù che dona se stesso, Dio si rivela come Colui che salva e libera dal male, dal nostro stesso male. Questo è il vero senso del 'mettere alla prova la nostra fede': confermarci la Sua Presenza nella nostra vita, il Suo Amore personale e fedele per ciascuno, che soli ci possono aprire, fin da quaggiù, alla fiducia e alla speranza anche nelle situazioni più disperate. Questi sono davvero momenti di Incontro e di Vita necessari. Ricordo quando l'obbedienza mi fece parroco a Santa Ninfa', in Sicilia. Mi prese una grande angoscia, motivata dalla consapevolezza dei miei limiti e dalle difficoltà a cui andavo incontro: quella parrocchia, in seguito ad un cattivo esempio del parroco, guardava alla Chiesa come ad un pericolo. Fu richiesta a me e ai miei confratelli tanta pazienza e fiducia in Dio. Ci volle tempo, fino a che la gente comprese che la Chiesa era altro e ci si poteva, non solo fidare, ma fame generosamente parte. E fu preziosa questa partecipazione, perché, dopo il terremoto, che nel 1968 ci lasciò tutti 'nudi', senza casa e senza sicurezze, trovammo nella Comunità la forza per sopravvivere alla prova, anzi per reclamare la ricostruzione. Ma occorre avere fiducia, grande fiducia nel Padre, che certamente sa come ridonarci la serenità. 'La fede cristiana porta la nostra attenzione sulla fine del male, e, nella prospettiva delle realtà ultime, esorta a combattere il male, fisico e morale, in questo mondo'. (L. Lorenzetti) Posso tranquillamente affermare che quando ci è chiesto il difficile, davanti a cui si vorrebbe voltare le spalle, Dio ci è vicino più che mai con la Sua luce e forza e, quando accogliamo con fede e generosità ciò che la vita porta con sé, Dio sa fare delle 'cose vecchie, cose nuove '. Questa è la vera prova della nostra fede: credere che il Padre non ci lascia mai soli. Dobbiamo tenere sempre presente nella mente e nel cuore le parole del Figlio, Gesù: 'Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuol salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà'. L'annuncio cristiano esige una fede forte e coraggiosa. Il nostro caro Paolo VI, maestro nella fede, ci aiuti ad approfondire questa verità di vita cristiana. "Per infondere nella nostra vita cristiana il rinnovamento, noi dobbiamo restaurare, con altre virtù e risorse dello spirito, la virtù della fortezza, come è intesa nella nostra pedagogia morale. Sì, fortezza. È forse legittima la concezione di un cristianesimo debole? Di un cristianesimo privo di fermezza nelle sue convinzioni, agnostico, indifferente, volubile, opportunista, vile? Di un cristianesimo timido e pauroso di se stesso? Manovrato dal rispetto umano? È forse autentico e nuovo un cristianesimo, che nella pratica, nel confronto con l'ambiente circostante, è disponibile a ogni conformismo, che ha soprattutto la tacita ansia di evitare fastidi, critiche, ironie, e il manifesto desiderio di profittare d'ogni occasione per fare bella figura o guadagnare vantaggi, risparmiare in guai e avanzare nella carriera?... Un seguace di Cristo non deve aver paura. Egli si sente avvolto in un'atmosfera di provvidenza, che volge al bene anche le cose avverse, le quali possono anche esse cooperare al nostro bene, se noi amiamo Dio. Egli è investito da un dovere di testimonianza che lo affranca dalla timidezza e dall'opportunismo, e che gli suggerisce contegno e parola al momento opportuno, provenienti da una sorgente interiore, di cui forse egli, prima della prova, ignorava l'esistenza. Quando anche voi foste soverchiati da avversari più forti di voi, ci insegna il Signore nel Vangelo: «Non preoccupatevi del come parlerete, né di ciò che dovrete dire: in quel momento vi sarà suggerito ciò che dovrete dire, perché non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi». A questo punto vi è un paradosso da risolvere: noi non siamo forse deboli per la nostra inferma natura? Si, è vero; persino Gesù nel Getsemani lo ha detto: «La nostra carne (cioè la nostra natura umana) è fiacca», ma Egli ha insieme affermato che «lo spirito è pronto». E San Paolo ha spiegato che, proprio quando umilmente e realisticamente ci confessiamo tribolati, allora siamo forti, perché il Signore gli aveva interiormente detto: «Ti basta la mia grazia, perché la virtù si afferma nella debolezza». Debolezza e fortezza, perciò, nel cristiano possono essere complementari. Vi è un orientamento coraggioso da imprimere nella nostra vita cristiana, privata e pubblica, per non diventare altrimenti insignificanti nel mondo dello spirito e forse complici di comuni rovine. La tendenza odierna, perciò, ad abolire ogni sforzo etico o personale (eccetto, e sta bene, nel campo sportivo, ma non basta) non prelude ad un vero progresso veramente umano. La croce è sempre diritta davanti a noi, e ci chiama al vigore morale, alla fortezza dello spirito, al sacrificio che ci assimila a Cristo e può salvare noi e il mondo". (28 maggio 1973) |