Omelia (23-09-2012) |
don Alberto Brignoli |
Autorità è servizio La politica mi ha sempre appassionato, ma - devo essere sincero - non so se ci ho mai capito qualcosa. Comunque, per quel poco che mi è dato di capire, mi pare di intuire che - in occasione di importanti scadenze elettorali - un leader politico inizia una fase di preparazione delle strategie da attuare per ottenere consensi e soprattutto per poter governare. Per cui, presenta il suo programma di governo alla sua base, al suo partito, prima ancora che al popolo, e successivamente, all'interno del partito, scatta la "corsa alla poltrona", ovvero alla candidatura, per potersi assicurare un posto di responsabilità nella lista del leader, magari il più possibile vicino a lui, magari proprio il posto più grande e più importante. Tutto sommato, ammesso che sia così, trovo questo atteggiamento totalmente legittimo, almeno per ciò che concerne la politica. Questo criterio comincia a starmi un po' più stretto quando viene utilizzato dai discepoli di Gesù, a partire proprio dal momento narrato dal brano di Vangelo che oggi la Liturgia della Parola ci propone. Gesù sta attraversando la Galilea nel suo viaggio deciso verso Gerusalemme, dove sa bene che lo attende la rivelazione finale del suo progetto, ovvero la costruzione del Regno di Dio; e sa altrettanto bene quanto questo progetto del Regno non corrisponda affatto ad un disegno politico. Tant'è vero che se ne guarda bene dal far sapere che sta passando per la Galilea (non voleva che alcuno lo sapesse - dice Marco - infatti insegnava ai suoi discepoli: "Il Figlio dell'uomo viene consegnato nelle mani degli uomini..."). Quella regione, infatti, era storicamente un focolaio di rivolte nei confronti della dominazione romana: e dal momento che Gesù è galileo (se non di nascita, certamente di educazione e di formazione) e i suoi compaesani, soprattutto coloro che manifestano più marcatamente certe idee politiche, vedono in lui un possibile leader carismatico politico-religioso capace di trascinare le masse ad una rivoluzione (lo vediamo anche oggi, in molte culture mediorientali), passare attraverso quella regione nel suo viaggio verso Gerusalemme (sede del potere politico) con eccessiva pubblicità e concorso di popolo non sarebbe certo stata la cosa più opportuna. Tanto più che Gesù, lungo quel cammino, istruiva i suoi discepoli proprio sul suo progetto e sulla sua idea di Regno di Dio da portare a compimento in Gerusalemme. Egli, a quanto pare, riesce nel suo intento, ma solo parzialmente: arriva, infatti, a casa a Cafarnao senza che le masse se ne accorgano, ma non riesce a far cogliere ai pochi che lo accompagnano che il suo Regno non è un Regno di questo mondo. Perché i suoi discepoli, come accennavamo prima, lungo la strada riprendono il discorso di Gesù e gli applicano immediatamente un criterio politico tipico della miglior campagna elettorale: si preoccupano, potremmo dire, di "preparare le liste" e di stabilire chi tra di loro dovesse essere il capolista, il capogruppo, "il più grande". A volte mi piace immaginare questa scena, in cui i discepoli "discutono" sulla loro "leadership" interna: sarà toccata a Pietro, l'uomo a cui vennero consegnate "le chiavi del Regno"? Oppure ai due fratelli, figli di Zebedeo, di temperamento acceso (li soprannominavano "figli del tuono") e tra i più antichi seguaci di Gesù, insieme ad Andrea, Filippo e Bartolomeo? O magari ai due "zeloti", Simone e Giuda Iscariota, già esponenti di una fazione politica integralista? O più pragmaticamente Matteo, l'esattore delle tasse, candidato alla poltrona di Ministro delle Finanze, visti i tempi che corrono? La cosa più interessante è che Gesù stesso (che li coglie in castagna, perché sa benissimo che stanno parlando di queste cose in maniera subdola e intrigante) presenta loro il suo "candidato" a capogruppo, quello che per lui, nel suo Regno, dovrà essere "il più grande". Prende un bambino, abbracciandolo lo pone in mezzo al gruppo, e cerca di far capire loro qual è il suo criterio di "grandezza", di "leadership", di "autorità": essere grandi nel Regno di Dio significa essere piccoli agli occhi del mondo. Piccoli ed umili, come un bambino, accogliendo ed amando il quale è come se si amasse lui in persona. Questa non è solo l'occasione per Gesù di esortare i suoi seguaci ad amare i bambini e i piccoli più di ogni altra cosa, ma è anche il momento ideale per ribaltare, in chi dice di seguirlo, il concetto di "autorità": l'autorità nella comunità dei credenti, nella Chiesa, è necessaria, ci deve essere qualcuno che "guida", che sta "davanti", che è "più grande" degli altri, per dirla con terminologie umane. Ma questo "più grande", questo "primate", questa "autorità" deve farsi il più piccolo di tutti, l'ultimo di tutti e - soprattutto - il "servitore di tutti". Che bell'ideale, questo di Gesù! Vuole qualcuno che per saper comandare sappia imparare innanzitutto a servire. È proprio un ideale, se guardiamo alla realtà dei fatti, cioè a come, nel corso della sua bi-millenaria storia, la Chiesa ha spesso interpretato il concetto di "autorità". Non mi riferisco solo ai periodi bui del Medioevo, in cui le gerarchie ecclesiastiche erano preoccupate quasi esclusivamente di detenere nelle loro mani "le due spade" (è l'espressione di Papa Bonifacio VIII, nel XIV secolo), quella del potere ecclesiastico e quella del potere politico. Non penso solo ai tempi dell'Inquisizione, quando "in nome dell'autorità concessa da Dio e dalla Chiesa" pubblicamente si bruciavano vivi tutti quelli che erano anche solo minimamente sospettati di essere un po' "diversi" nel loro modo di vivere la fede. E non penso nemmeno solo alla conquista del Nuovo Mondo, fatta da Spagna e Portogallo in nome di Dio, o alle scomuniche inflitte dai Papi ai governanti degli Stati che attaccavano lo Stato Pontificio nei secoli dell'Illuminismo. Per questi motivi e "per le colpe dei figli della Chiesa" il Beato Papa Giovanni Paolo II già chiese pubblicamente perdono al mondo nel corso delle Celebrazioni del Giubileo del Duemila. Penso, molto più semplicemente, alla nostra quotidianità; alle volte in cui soprattutto noi, uomini del clero, ci comportiamo in maniera troppo autoritaria verso i nostri fratelli di fede. Quando poi non accettiamo di entrare in dialogo con chi in comunità la pensa diversamente da noi, abbiamo sempre pronta la frase magica: "Il parroco sono io". Penso alle volte in cui, spesso anche fomentati da un laicato che si dice cristiano ma lo è solo sul registro di battesimo, noi pastori - a cui, va detto, ancora molta gente guarda come punto di riferimento e si attende da loro un atteggiamento paterno di guida - ci preoccupiamo più di politica che di pastorale, più del parlamento che della piazza, più della salvaguardia dei privilegi acquisiti che della ricerca del dialogo con l'uomo contemporaneo e con i suoi problemi quotidiani; penso a quell'autorità che ama rivestirsi più delle vesti di gloria che del grembiule del servizio con cui il Maestro ci ha dato l'esempio, lavandoci i piedi e chiedendoci di fare altrettanto l'uno all'altro. Ma non mi piace fare l'accusatore o il profeta, anche perché non lo so proprio fare. Credo ancora, e tanto, la Chiesa una, santa, cattolica, apostolica e - lasciatemelo aggiungere, anche se non è dogmatico - "serva". Credo ancora che il Maestro, e il suo Spirito che opera nel cuore dei credenti, sia capace di farci nuovamente assaporare la bellezza e la genuinità di essere autoritari perché autorevoli, di essere "capi" perché "servi", di essere "grandi" perché "ultimi". |