Omelia (30-09-2012)
mons. Gianfranco Poma
Chi non è contro di noi, è per noi

Il brano del Vangelo di Marco che la Liturgia della domenica XXVI del tempo ordinario ci fa leggere (Mc.9,38-48), è l'immediata continuazione di quanto abbiamo letto la domenica precedente.
Si tratta di una serie di insegnamenti, non strettamente collegati tra loro, con i quali Gesù continua ad istruire i suoi discepoli. Sono insegnamenti non facili da interpretare e pure sconcertanti e provocatori. D'altra parte a che servirebbe la Parola di Dio rivolta a noi, se si trattasse soltanto di luoghi comuni, di buone parole, sostanzialmente innocue? Inoltre, in questo passo come in molti altri, troviamo un esempio della pedagogia di Gesù, del suo modo di rivolgersi ai suoi ascoltatori, perché la sua Parola li tocchi, li scuota, e non sia facilmente dimenticata.
Si tratta certamente di insegnamenti di Gesù ripensati all'interno della comunità di Marco, secondo l'ipotesi più probabile a Roma, in ambito pagano; una comunità numericamente piccola, ma fortemente concentrata sull'essenziale, la fede in Gesù; una comunità missionaria, aperta verso il mondo universale. Ciò che sta a cuore a Marco è l'identità di questa comunità, ma l'identità è data dalla fede in Gesù. Ciò che preoccupa Marco è il rischio che la comunità sposti l'identità su se stessa, sulla sua autoreferenzialità. Questo nostro brano ha un forte interesse ecclesiale, con la preoccupazione che la ecclesiologia sia alla luce della Cristologia.
Ancora una volta il Vangelo di Marco ci appare in tutta la sua attualità: la Chiesa di oggi si trova nella stessa situazione della comunità di Marco, di essere missionaria, annunciatrice di Cristo al mondo. "La luce delle genti è Cristo - inizia così la ‘Lumen Gentium' - e la Chiesa desidera ardentemente illuminare tutti gli uomini con la luce di Cristo che si riflette sul volto della Chiesa".
Tra i discepoli che sono appena usciti dalla discussione su chi tra essi fosse il più grande, nasce un nuovo dibattito sul diritto del loro gruppo di appropriarsi del nome di Gesù per compiere esorcismi. Ed è Giovanni (solitamente è Pietro), uno dei due ambiziosi figli di Zebedeo, che Gesù ha chiamato "figli del tuono", a porre la questione: "Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo perché non seguiva noi". "Abbiamo visto", "volevamo impedirglielo": Giovanni parla per il gruppo dei discepoli ("noi"), diventato soggetto capace di decisioni autonome, con la pretesa di potere in esclusiva agire in nome di Gesù, e che di conseguenza la sequela del gruppo dei discepoli, sia criterio necessario per poter usare della stessa autorità. Il riferimento al "Maestro", da parte di Giovanni, è solo per avere una approvazione per il suo modo di intendere l'insegnamento di Gesù, mentre Marco continua a sottolineare che i discepoli non capivano.
La risposta di Gesù capovolge la posizione di Giovanni: "Non glielo impedite. Non c'è nessuno infatti che faccia un'azione potente nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. Infatti chi non è contro di noi è per noi".
Per Giovanni è impossibile che uno compia un esorcismo, atto potente contro il male, se "non segue noi": nel Vangelo e nell'insegnamento di Gesù la proposta non è mai di "seguire i discepoli", ma di "seguire Gesù".
Questo evento è illuminante di come sia possibile illudersi di "stare con lui" e di essere suoi annunciatori, unicamente perché si fa parte di un gruppo di suoi discepoli.
È pure illuminante di come sia possibile per un gruppo di suoi discepoli essere integralisti al punto tale di ritenere impossibile essere per Gesù ed agire nel suo nome pur senza aderire ad un gruppo. Vengono poste le basi, invece, per una Chiesa che sia veramente comunità di discepoli che seguono Gesù e che non danno mai per scontato che lui sia con loro, con i loro progetti, con i loro pensieri; comunità che nella fede in lui trova la propria identità, cosciente sempre che egli è più grande di ogni confine perché l'Amore con cui vince il male può raggiungere anche chi non fa parte del gruppo dei suoi discepoli.
Segue, nel nostro brano, una serie di insegnamenti diversi e poco collegati tra loro, destinati non alla folla, ma al gruppo dei discepoli e in particolare ai Dodici, un gruppo dirigente ridotto.
Lo scopo che Marco si propone è quello di convincere i leaders reali o potenziali del movimento di Gesù ad adottare uno stile di governo diverso da quello dei modelli culturali sociali, seguendo il suo esempio.
Per comprendere in modo corretto queste esortazioni, occorre collocarle nel contesto nel quale Gesù cerca di convincere i suoi discepoli a modificare le loro prospettive su di lui e sul suo messianismo e quindi anche su di loro stessi, nella linea non della grandezza e del potere, ma del servizio sino al dono della vita.
La comunità a cui Marco si rivolge, piccola, ma intensa nella fede, missionaria per portare al mondo il lieto annuncio e non per fare proseliti, non con mezzi ambigui perché potenti, non vuole essere di ostacolo (" scandalo" vuol dire ostacolo) all'ingresso di ogni uomo nella "vita", nel "regno di Dio". I "leaders" della comunità di Gesù, sono missionari itineranti, poveri, liberi, pieni di gioia, annunciatori della vita vera che viene dall'esperienza dell'incontro con Cristo che è morto per Amore e che è risorto perché tutto il mondo viva del suo Amore.
Al missionario, povero per essere libero, itinerante che ha bisogno di essere accolto, e che può essere tentato di farsi "una casa sua" per avere strumenti più adeguati per il suo apostolato, Gesù, facendosi suo garante, assicura: "Chiunque vi darà un bicchiere d'acqua nel mio nome perché siete di Cristo, vi dico in verità che non perderà la sua ricompensa".
Al missionario tentato di porre condizioni previe che appesantiscono l'annuncio cristiano e che scoraggiano chi non è sufficientemente intelligente, forte, per far parte del suo "movimento", Gesù ricorda che l'Amore del Padre è per i piccoli e con linguaggio forte, perché comprenda che l'accoglienza dell'Amore precede e non segue ciò che l'uomo nella sua debolezza può fare e sia convinto che al di fuori dell'accoglienza dell'Amore non c'è la vita, Gesù ricorda: "Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, sarebbe meglio per lui che gli passassero al collo una macina da asino...è meglio per te entrare nella vita monco..."
Al missionario scoraggiato di fronte alla potenza del mondo, che vorrebbe essere più forte, più intelligente..., Gesù ricorda che l'annuncio dell'ingresso "nel regno di Dio", esperienza meravigliosa del suo Amore, trova piuttosto un ostacolo nell'uso dei mezzi della potenza umana e tutta la sua forza nella debolezza: "...è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo...".
Riecheggia in queste parole tutta l'esperienza personale di San Paolo che egli descrive nelle sue due lettere ai Corinzi: "...Ti basta la mia grazia; la forza infatti, si manifesta pienamente nella debolezza" (2Cor.12,9).
Ancora una volta, ci sorprende l'attualità delle parole del Vangelo.