Omelia (07-10-2012) |
padre Gian Franco Scarpitta |
Matrimonio, vocazione all'amore In un'epoca in cui la sacralità del matrimonio e la morale sessuale cattolica vengono messe in seria discussione dal fenomeno dei divorzi e delle separazioni ormai di numero incalcolabile, come pure dalla prassi altrettanto diffusa delle unioni di fatto o ancora dalla realtà sempre delle unioni gay, il tema della liturgia di oggi offre appropriati spunti di analisi e di riflessione. Nella società odierna infatti, il concetto di matrimonio come Sacramento, il valore dell'indissolubilità e della fedeltà coniugale assumono impostazioni differenti e soggettivistiche rispetto al passato, complice una posizione di pensiero del tutto secolarizzata e indifferentista. Non di rado il matrimonio in senso tradizionale viene interpretato come prassi obsoleta, superata e non conforme alla nuova mentalità corrente, la persistenza nella vita sponsale del primo vincolo come cultura tipica dei "tradizionalisti". In nome di una presunta emancipazione della coppia, nella sequela di un concetto subdolo e meschino di morale relativistica per la quale si seguono le comuni usanze del momento, complice anche un deteriorato concetto di libertà di scelta, quasi dappertutto è ritenuto lecito concepire figli nel corso della convivenza di fatto e non è raro il caso di persone che concepiscono del tutto nella norma concedersi occasionali piaceri effimeri e relazioni sessuali con persone differenti dal proprio coniuge. Ciò anche quando si è coniugati con prole. Aver contratto matrimonio più volte nella vita è addirittura in alcuni luoghi motivi di vanto. I rapporti sessuali dei giovani prima del matrimonio ormai non destano più meraviglia, tanto sono diffusi e usuali. Siamo ben lontani dai tempi in cui la famiglia e la fedeltà coniugale venivano concepiti in senso assoluto e uniforme. Si preferisce sottostare alla schiavitù delle passioni e dei disordini sessuali, al gioco insensato della morale del "così fan tutti", senza guardare ad essa con un minimo di considerazione critica e trovando anzi qualsiasi pretesto, a volte anche blando e leggero, per giustificarla. Ma a mio giudizio si tratta ancora una volta di costumi destinati a durare per poco, di mode esclusivamente banali e passeggere a cui subentreranno in seguito altri usi altrettanto provvisori e forieri di grandi disillusioni, quali sono state le ideologie e le varie chimere. Determinate mode e costumi prendono corpo in un certo periodo di tempo, si impongono e conquistano intere generazioni e seducono anche mentalità e assetti culturali, tuttavia non sono destinate a durare a lungo, poiché passato l'entusiasmo, cessa anche la moda. Solo la Parola di Dio resta immutabile e sostanzialmente solo il messaggio evangelico è quello che alla fine offre più gratificazioni con le sue proposte di fedeltà coniugale e coerenza nella vita matrimoniale, essendo solo queste in fin dei conti le prospettive che esaltano l'uomo e la coppia. Soprattutto perché in luogo del piacere effimero e della banale dissolutezza, essa ha come fondamento l'AMORE e in forza di esso assume completezza e durevolezza. Il Vangelo è impegnativo appunto perché fonda ogni cosa sull'amore e sul dono di se stessi e per questo non può che restare inalterato. E tale infatti è sempre stato, mostrandosi sempre molto più convincente rispetto alle alternative fittizie della morale di consumo. La domanda che compendia la legittimità della sola fedeltà coniugale nel matrimonio, è la seguente: "Può un uomo ripudiare la propria donna per qualsiasi motitvo?" Che l'uomo potesse ripudiare la propria donna era una determinazione della Legge di Israele di cui è testimone il libro del Deuteronomio: "Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che essa non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa. Se essa, uscita dalla casa di lui, va e diventa moglie di un altro marito e questi la prende in odio, scrive per lei un libello di ripudio, glielo consegna in mano e la manda via dalla casa." (Dt 24, 1-3) Secondo la legge antica di Mosè la donna colpevole di aver commesso "qualcosa di vergognoso" nei confronti del marito era considerata meritoria di ripudio da parte di questi e il procedimento avveniva sempre in senso unilaterale: solo l'uomo aveva potere di ripudiare la propria consorte, mentre quest'ultima non aveva diritto di farlo in nessun caso. Nella vecchia economia le donne non venivano infatti computate nel novero della generazione e non avevano quasi rilevanza nella condizione sociale del popolo d'Israele; per questo motivo una donna che rimaneva inesorabilmente vedova era destinata a una vita infelice. Cosicché, mentre la donna era in ogni caso sottomessa alla volontà dell'uomo e nulla poteva decidere di propria iniziativa, l'uomo disponeva di tutti i vantaggi legali per poter ripudiare la propria sposa. L'unico problema che si poneva era il motivo per cui era spinto a farlo: secondo una certa corrente teologica di stampo ebraico, denominata "scuola di Hillel"era sufficiente una ragione qualsiasi, compreso il pretesto che ella "non trovasse più grazia ai suoi occhi", cioè non entrasse più nelle sue preferenze o che lui si stancasse di averla per moglie. Secondo un altro orientamento, definito "Scuola di Shammai" occorreva invece che la donna si macchiasse di peccato di adulterio nei confronti del marito perché si potesse stendere l'atto di ripudio. Quando i farisei, intenti a provocare Gesù con la loro domanda, pongono il presente problema, danno quindi per scontato che sia lecito ad un uomo abbandonare la propria moglie e infatti non interrogano Gesù sulla possibilità in tal senso, quanto piuttosto su quali condizioni occorressero perché il ripudio del marito potesse essere lecito e legittimo: ha ragione il movimento progressista di Hillel, che prevede che sia sufficiente una ragione qualsiasi, oppure quello rigorista di Shammai, per cui solo il libello di ripudio è possibile solo con il tradimento della moglie? Come spesso avviene con i suoi interlocutori più ipocriti e spacconi, Gesù non si lascia sorprendere e mostra anzi di essere lui a recare l'effetto sorpresa, e soprattutto mira alla soluzione adeguata del problema. In tal caso infatti punta soprattutto a ripristinare l'originario rapporto di pari dignità fra l'uomo e la donna, la parità di diritti fra ambo i sessi e l'uguaglianza fra maschio e femmina, tutte realtà che scaturiscono da una sola frase "in origine maschio e femmina li creò". Con questa affermazione si lascia intendere che non soltanto l'uomo ma anche la donna è parimenti beneficiaria del dono di amore e di grazia che scaturisce da Dio e di conseguenza è anch'essa depositaria dei medesimi diritti. La vera soluzione del problema risiede pertanto non nel riconoscere le ragioni di Hillel o di Shammai, ma nel restaurare questa relazione infranta di assoluta uguaglianza e complementarietà: non soltanto la donna è colpevole di adulterio quando manchi di fedeltà al proprio coniuge, ma anche l'uomo si macchia dello stesso misfatto quando tradisca la propria donna con un'altra. Anche il marito è tenuto al vincolo di fedeltà coniugale e anch'egli è suscettibile di errori e di relative condanne quando manchi a tale obbligo grave. Se la legge di Mosè ha usato una considerevole indulgenza, ciò è avvenuto perché il patriarca si è trovato nella necessità di dover adattare l'originale intendimento divino alla situazione deprimente del cuore dell'uomo, cioè con alla miserevole condizione di durezza e ostinazione al male. "Non osi separare l'uomo ciò che Dio unisce" aggiunge poi il Signore Gesù, nella ferma convinzione che l'amore sponsale è dato dall'unità di due soggetti umani che si accettano l'un l'altro nella libertà e animati dal solo amore che viene da Dio. Il matrimonio cristiano non può non paragonarsi alla scelta vocazionale del sacerdozio e della vita religiosa, perché comporta il medesimo spessore di accettazione e di fedeltà, il medesimo impegno di unilateralità della scelta preferenziale libera e non coatta: in altre parole si sceglie la propria donna o il proprio uomo come un sacerdote ha scelto Cristo in senso non equivoco nelle intenzioni di fedeltà assoluta, nella consapevolezza che nell'uno e nell'altro caso è stato Dio ad operare tale scelta e non possiamo che usargli assoluta, impegnativa, fedeltà. Quando l'unione sponsale della coppia si realizza nel vincolo del vero amore effettivo, si supera ogni sorta di minaccia all'unità, si vince su tutte le apprensioni, e si scongiura ogni possibilità di fallimento della scelta sponsale, poiché quando si parla di amore in senso di carità divina non lo si può che concepire in termini di seria accettazione reciproca nel bene e nel male, di mutua donazione costante e di condivisione dei dolori e delle sfide, di sincerità e di apertura l'uno verso l'altra e di reciproca coappartenenza che diventano concrete nell'automatico. Le negligenza e l'apatia al presentarsi della più piccola difficoltà, la mancanza di costanza e di motivazione continua nel coltivare il proprio coniuge non possono che legittimare invece la separazione e il divorzio come via di soluzione troppo comoda. La vera soluzione ai determinati problemi che immancabilmente la vita matrimoniale comporta a mio giudizio risiede solamente in una cosa: la fede nella scelta intrapresa, cioè la consapevolezza di quanto si è voluto scegliere con gioia e soprattutto la consapevolezza di non esserci affidati al caso o alla fatalità nella scelta del vincolo, ma di aver ottemperato alla vocazione all'amore secondo i piani di Dio. Affidarsi al Signore e confidare in lui è la chiave di volta per la soluzione di tutti i problemi. |