Omelia (21-10-2012) |
don Alberto Brignoli |
Credo a un Dio servo dell'uomo, perciò parlo di lui con la mia vita Il nostro cammino domenicale alla scoperta della persona di Cristo, così come Marco ce lo presenta, continua e si rafforza oggi grazie anche allo stimolo che ci viene dalla Celebrazione dell'86ª Giornata Missionaria Mondiale, che quest'anno ha come tema "Ho creduto, perciò ho parlato". È proprio la sequela costante di Cristo propostaci da Marco che ci fa comprendere l'orizzonte di fede in cui questa sequela si gioca. Pensiamo anche solo alle tre situazioni di incontro e di discepolato che il Vangelo ci propone in queste domeniche: una - quella di domenica scorsa del giovane ricco - potenzialmente predisposta a fare grandi cose dietro a Gesù, e che invece si rivela un fallimento per colpa della priorità data alle ricchezze piuttosto che a Dio; un'altra - quella di domenica prossima, con il cieco di Gerico - che incurante di un gruppo di discepoli che vuole allontanarlo dall'incontro con il Maestro, grida con tutta la sua disperazione la sua sete di salvezza e diviene poi testimone diretto della misericordia usatagli da Dio. E in mezzo, in maniera significativa, l'esperienza di fede di due discepoli, Giacomo e Giovanni, passati attraverso un processo non facile di scoperta e di sequela della figura di Gesù, da loro visto inizialmente come opportunità di riuscita e di successo nella vita, ma alla fine compreso come il Servo sofferente della prima lettura, che certamente guida e salva il suo popolo, ma attraverso l'autorevolezza che viene dal mettersi a servizio dell'umanità, e non attraverso l'imposizione autoritaria della propria personalità e delle proprie verità. Vedo in Giacomo e Giovanni il paradigma di ogni discepolo, che cerca in Gesù sicurezza e gloria e invece trova debolezza e servizio agli ultimi. Vedo nei due figli di Zebedeo il paradigma di ogni missionario, che ha su di sé il compito gravoso ed insieme entusiasmante di essere nel mondo testimone di un Vangelo che, agli occhi del mondo, non ha certo nulla di esaltante da offrire. Perché il rischio di Giacomo e di Giovanni è il rischio di ogni missionario: sentirsi, in nome della verità della fede, soggetto e motivo di gloria, invece che umile strumento di servizio. Vedete: quando si parte per un altro paese come missionari, ci si sente un po' orgogliosi di quello che si va a fare. E ci si sente così perché si avverte dentro di noi una sorta di "investitura" (addirittura riceviamo un "mandato", a nome di una Chiesa che ci invia) che ci fa sentire "portatori" di qualcosa. Portatori del Vangelo, indubbiamente; portatori di una parola di speranza, di una parola che è Verità, perché così è stato prima di tutto per la nostra vita di fede. È fuori luogo pensare di annunciare il Vangelo agli altri se prima non si è stati noi stessi edotti nelle cose di Dio. Come appunto dice lo slogan di quest'anno: "Ho creduto, perciò ho parlato". Fin qui, nulla di strano. Le cose cominciano a non andare per il verso giusto quando facciamo coincidere questa Parola di Verità con le "nostre" parole; quando ciò di cui "io" parlo, è ciò che "io" ho creduto, più che ciò che mi è stato insegnato; quando facciamo coincidere l'annuncio del Regno di Dio con la proclamazione del "nostro" regno; quando facciamo coincidere la sovranità di Dio sulla storia e sull'umanità con i nostri desideri di sovranità, di dominio, di autorità. E questo atteggiamento, tra noi missionari, è molto più frequente di ciò che pensiamo. L'ecclesiologia che esce dal Concilio Vaticano II (del quale ricordiamo in questi giorni il cinquantesimo anniversario di apertura, e in occasione del quale Papa Benedetto XVI ha indetto l'Anno della Fede) ha aiutato ogni credente a riscoprire la Chiesa e la sua azione missionaria come luogo di servizio; luogo di annuncio del Regno, certamente, ma mai disgiunto da un impegno di carità come servizio ad altre chiese sorelle più povere. Oggi, invece, si assiste alla rinascita di uno spirito missionario eccessivamente "glorioso", ovvero talmente convinto di portare in ogni parte del mondo la Verità del Vangelo, da assumere atteggiamenti di "dominio", di "certezza", di "verità in tasca che non si discute" e che si impone ad altre culture e ad altre chiese sorelle in nome di Dio, saltando ogni opera di mediazione e di inculturazione del Vangelo e prescindendo dal cammino di fede che già esiste in ogni uomo e in ogni cultura. Lo sforzo di Gesù Cristo nel far comprendere a Giacomo e Giovanni che annunciare il Vangelo non significa dominare o imporsi agli altri, ma significa innanzitutto mettersi al servizio dell'uomo, è uno sforzo che non è mai concluso. In missione, qui o altrove, ovunque le esigenze della Nuova Evangelizzazione ci portino ad andare, non possiamo pensare di dominare o imporre la nostra fede con atteggiamenti di superiorità nei confronti delle diverse culture o espressioni religiose. Non andiamo a dominare, ma ad accompagnare; non andiamo a "illuminare" le coscienze, ma a lasciarci illuminare dai progetti che la Grazia di Dio ha sull'umanità. Ecco perché, prima di "parlare", di "annunciare", è fondamentale che viviamo noi stessi per primi la profonda esperienza di fede che vogliamo comunicare agli altri: perché non andiamo ad indicare la strada agli altri, ma a condividere insieme con loro un pezzetto di quella strada che ci porta entrambi, noi e loro, all'incontro con Dio. Non c'è un solo passo in tutto il Vangelo che ci mostri Gesù mentre "impone" (pur potendo farlo) la sua Parola di Verità a qualcuno: perché la sua logica non è quella del dominio glorioso, ma quella della gloria che viene dal servizio, dal farsi ultimi, dall'amore per i poveri; in definitiva, dalla Croce. Sono già fin troppi i paesi del Sud del mondo (e non solo del Sud) soggetti alla logica del "messianismo" politico e religioso, ovvero quella logica per cui ci si affida al carisma di un leader che diventa padre e padrone di tutti e che, in nome di un falso bene per la nazione, impone i propri interessi e le proprie strategie a popoli assetati di giustizia e di risposte adeguate ai loro problemi quotidiani. Almeno noi, uomini di Chiesa, preti, religiosi e religiose, ma anche laici, allontaniamoci da questa tentazione, sempre forte, di strumentalizzare il Vangelo a nostro favore e di renderlo motivo di superiorità rispetto agli altri! Oggi Cristo chiede a Giacomo e Giovanni di fare un passo impegnativo, per essere suoi veri discepoli: chiede loro di essere disposti a "bere lo stesso calice che lui deve bere" e a "ricevere il battesimo che anche lui deve ricevere", in altre parole quello del martirio e della croce. Oggi Cristo chiede ad ognuno di noi suoi discepoli, in particolare a chi sente di dedicare la propria vita a servizio del Vangelo in ogni parte del mondo, di bere allo stesso calice a cui, costantemente, bevono milioni e milioni di persone sulla faccia della terra, ossia il calice della sofferenza, dell'ingiustizia, del mancato rispetto dei diritti umani, della violenza e della sopraffazione, del sopruso, di un lavoro che non c'è e che per di più è mal pagato, della fame e delle malattie sofferte senza motivo. Bere a questo calice è accettare di condividere, nella logica del servizio, le sorti di popoli che hanno ancora tanta fame e sete di giustizia; non per rimanere, con loro e come loro, inermi di fronte all'ingiustizia, né tanto meno per imporre loro una fede anestetizzante, pesante ed oppressiva, ma per aiutarli a credere ancora in un Dio che "è venuto non per essere servito, ma per servire e dare la propria vita per tutti". Questo è ciò che abbiamo veduto e creduto. Questo è ciò che ora dobbiamo annunciare. |