Omelia (21-10-2012) |
Ileana Mortari - rito romano |
Potete bere il calice che io bevo? Il brano odierno si colloca subito dopo il terzo annunzio della Passione da parte di Gesù. Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, che al momento della chiamata Gesù aveva soprannominati "Boanérghes", cioè "figli del tuono" (cfr.Mc.3,17) per il loro carattere passionale e il forte zelo religioso, mostrano di avere grande familiarità con il Maestro, cui chiedono senza mezzi termini di fare per loro quello che gli domandano: sedere nella Sua gloria, uno a destra e uno a sinistra. Come mai questa domanda e che cosa significava per loro "sedere nella gloria" (v.37)? All'inizio del vangelo Gesù aveva proclamato: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino" (Marco 1,15a); i due apostoli, vedendo Gesù compiere grandi miracoli e scacciare i demoni, avevano riconosciuto in Lui il Messia annunciato dalle Scritture, ma considerandolo (come gli altri dieci) quale nuovo capo che puntava alla riconquista e ricostruzione del glorioso regno di Gerusalemme, dopo averne cacciato gli occupanti romani; e non tenevano affatto in considerazione quello che peraltro Gesù aveva già preannunziato tre volte: un destino di sofferenza e morte, che evidentemente mal si accordava con la loro visione trionfalistica del Messia. Persistendo nell'errata comprensione, i due fratelli ora ritengono di avere tutte le carte in regola per chiedere a Gesù una sorta di "premio" e tangibili "privilegi" in quel regno terreno, che secondo loro sta ormai per affermarsi nella gloria. Scrive Enzo Bianchi nel suo commento a Marco, ediz. Qiqajon (Bose), pag.180: "Difficile dire su cosa fondassero la loro richiesta: forse sul loro essere cugini o parenti di Gesù, come tramanda una tradizione antica; ma è più facile che facessero valere la loro anzianità di chiamati essendo con Gesù fin dall'inizio, oppure la fedeltà e lo zelo [motivo del loro soprannome, come visto sopra - ndr]. In ogni caso la loro è la solita pretesa che emerge in ogni vita comunitaria circa i primi posti o almeno i secondi nella presidenza, quale privilegio acquistato con qualche atteggiamento buono o valoroso." Ma la risposta di Gesù riconduce subito il discorso nel suo alveo: "Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io bevo o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?" (v.38) Nel linguaggio biblico il calice da bere è un'immagine con diversi significati; ci sono infatti il "calice della gioia", "il calice della consolazione" offerto alle persone in lutto dopo i funerali, "il calice dell'ospitalità" (cfr. Salmo 22/23, a.5), il calice del sacrificio nel tempio, il calice= coppa di vino segno della benedizione divina (cfr.Salmo 15/6,5; 115/116,13). Ma c'è anche "il calice dell'ira di Dio", espressione della prova lacerante, dell'amarezza, della sofferenza, della collera e del giudizio-castigo di Dio (cfr.Salmo 74/5,9 - Is.51,17); e nell'ambiente giudaico la metafora del "bere il calice" veniva spesso utilizzata per indicare l'accettazione del martirio: Gesù dunque allude alla sua morte che è accettazione del martirio, giudizio e salvezza. L'altra immagine, quella del battesimo, va intesa nel significato originario del termine greco, che significa "immersione" e anche "andare a fondo"; essa viene usata, soprattutto nel salterio, per indicare sofferenza, pericolo di morte e distruzione, rappresentate come un affondare nel gorgo delle acque: "sono caduto in acque profonde e l'acqua mi travolge" (Salmo 68/9, a.3); anche Gesù riprende più volte tale immagine per indicare il suo destino di sofferenza e morte (cfr.Luca 12,50) e nel contesto che stiamo esaminando essa gli serve, insieme a quella del calice, per esplicitare con altri termini quanto ha profetizzato poco prima, nella terza predizione della passione. Alla domanda di Gesù se anche Giacomo e Giovanni sono disposti a tutto questo, essi rispondono affermativamente, ancora una volta senza essere davvero consapevoli di ciò che dicono; e Gesù: "Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete" (v.39). Effettivamente Giacomo fu il primo dei dodici apostoli a morire martire "di spada", cioè decapitato, nel 44 d.Cr. (cfr. Atti 12,2); anche Giovanni secondo alcune tradizioni morì martire a Gerusalemme, ucciso con violenza dai Giudei; secondo altri, visse ad Efeso fino ad età avanzata, ma non senza aver molto sofferto in esilio, come sappiamo dalle sue lettere e dall'Apocalisse. Di fatto, dunque, i due fratelli si sarebbero mostrati ben degni discepoli e seguaci del Signore; "Ma - prosegue il Maestro - sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato" (v.40); il verbo finale è il cosiddetto "passivo teologico o divino", una forma grammaticale passiva priva del complemento d'agente; è questa una tipica modalità biblica per evitare di nominare Dio, e nello stesso tempo far capire che Egli è il soggetto dell'azione al passivo. Gesù, rifiutando di accettare la richiesta dei figli di Zebedeo, e rimettendo ogni decisione al Padre, afferma che la concessione della gloria nel Regno di Dio non può essere concepita come un diritto per l'uomo meritevole o come un dovere per Dio, ma è una libera donazione, che il Padre fa secondo la sua infinita sapienza, giustizia e liberalità, senza venir mai meno alle sue promesse. A questo punto intervengono gli altri apostoli, seccati per l'iniziativa dei due fratelli, e Gesù coglie l'occasione per impartire un fondamentale insegnamento che si aggiunge agli altri formulati durante il viaggio verso Gerusalemme: al contrario di quanto succede generalmente nel mondo, nella comunità cristiana il "potere", o "autorità", non consiste nel dominare e autoaffermarsi orgogliosamente, ma nel "servire", sull'esempio dello stesso Gesù, che "non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti (=tutti)" (v.45) E' quest'ultimo uno dei versetti più importanti di tutto il vangelo di Marco, che sintetizza in poche parole il senso della vita e della missione di Gesù. Il termine "riscatto" richiama alla nostra attenzione una famosa prassi giuridica presente nel Primo Testamento: quando un uomo cadeva in schiavitù (per debiti non onorati o come prigioniero di guerra) e non era in grado di pagare il riscatto per riavere la libertà, toccava al suo parente più vicino sentirsi coinvolto e pagare al posto del consanguineo. E' proprio questo che ha fatto Jahvè nei confronti del suo popolo schiavo in Egitto, quando l'ha liberato: l'analogia, però, non punta tanto sul "prezzo" da pagare, quanto sull'atteggiamento di solidarietà. Lo stesso vale per la vicenda di Gesù: la sua passione e morte non sono state tanto un "prezzo" da pagare al demonio perché abbandoni il suo dominio sull'umanità, o tantomeno al Padre perché plachi la sua collera (come per molto tempo si è detto in passato), ma la manifestazione più alta della sua solidarietà con gli uomini, che Lo ha portato a condividere in tutto, eccetto il peccato, la nostra condizione umana; e, come il chicco di grano che morendo porta molto frutto (cfr. Giov.12,24), così Egli ha donato la sua vita perché gli uomini abbiano la vita (= la salvezza), e l'abbiano in abbondanza (cfr. Giov.10,10). |