Omelia (28-10-2012)
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COMMENTO ALLE LETTURE
a cura di Massimo Cautero

"Cosa voglio che il Signore faccia per me?". Questa è una bella domanda! Una di quelle domande a cui rispondere sembra facile ma ... non lo è affatto!
La mia indigenza, se ce ne fosse una, forse mi porterebbe a chiedere al Signore un qualche sollievo, un miracolo che mi restituisca una situazione favorevole o, comunque, me ne dia una; nei panni di un povero sicuramente domanderei quella sicurezza di vita che ai poveri manca per "statuto"; se fossi uno zoppo domanderei la restituzione della mia mobilità per correre, finalmente, là dove mi era impedito; se fossi cieco nessun dubbio, domanderei la vista per tornare a muovermi e vivere di nuovo in maniera sicura ed autonoma. Più vado avanti con le ipotesi e più mi rendo conto che il punto non è che io ottenga dal Signore un miracolo ma, qualora lo ottenessi, quale debba essere la giusta e corretta mia reazione secondo la fede che ha generato la mia richiesta, e, particolare non trascurabile, di quale fede stiamo parlando!
Il cieco di Gerico, appena riavuta la vista, si mette alla sequela di Gesù, prende la strada dietro di Lui, non più una strada dove il seme gettato, la parola, viene portata via dagli uccelli (Mc 4,4), ma una strada che è la Parola stessa, una persona viva che è capace di dare di nuovo la vita ed i beni della vita perché Egli è "il figlio di Dio" e non il "figlio di Davide", è colui che non corrisponde ad una attesa messianica umana ("figlio di Davide"), a cui tutti in Israele si erano abituati all'attesa, ma è veramente Colui del quale Dio stesso dice "Tu sei il figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto" (Mc 1,11), Colui che è venuto a donare la sua vita affinché il suo popolo, i suoi fratelli, ne abbiano e ne abbiano in abbondanza, senza colpo ferire, né usare la spada, anzi, subendo tutti i colpi possibili ed immaginabili. Ecco il vero piano di liberazione divina dell'uomo proprio perché all'uomo, al popolo di Israele, mai sarebbe venuto in mente!
Questo deve essere stato subito evidente a Bartimeo, evidente che la sua vera cecità non era nel fisico ma nell'insistere, come tutto il popolo di Israele, nell'attesa messianica sbagliata, nell'aspettare un re che, come fece Davide, riunisse di nuovo il suo popolo con la violenza della spada, e non essere più in grado di accogliere da Dio il vero Messia della vita che stava realizzando la Salvezza con la sua stessa vita. Bartimeo realizzò che la sua vera cecità, il suo vero handicap, era proprio questo e, con esso, tutti gli ostacoli che ne derivano e non permettono al Signore di guarirci integralmente. Questa nuova consapevolezza permette di eliminare ogni ostacolo perché genera una novità radicale, la fede nel progetto di Dio (Và, la tua fede ti ha salvato - Mc 10,52 ), fede che permette a Dio di compiere in noi, per noi e con noi, grandi cose.
Altra curiosità, almeno per me, è capire cosa sarà passato per la mente di Giacomo e Giovanni, che pochissimi versetti prima (Mc 10,26-40) avevano chiesto a Gesù "un favore" (... concedici di sedere nella tua Gloria uno alla tua destra ed uno alla tua sinistra"- Mc 10, 35-37), cosa, di fronte alla fede ed il miracolo di Bartimeo, è potuto scaturire da una loro riflessione sulla propria fede e su chi fosse, per loro, il Messia che già da un po' stavano seguendo.
Sicuramente quello che succede con Bartimeo è una delle risposte che Gesù, nel suo stile, concede alle infermità di fede dei suoi discepoli, una risposta ad una malattia ben più pericolosa e dura della cecità, che porta a domandare come grazia da ricevere non la salvezza di Dio, ma ciò che suggerisce l'idea sbagliata che gli uomini hanno della salvezza di Dio. A riprova anche il fatto che Gesù, nonostante per la terza volta gli avesse annunciato, in maniera intima e speciale, il piano salvifico di Dio attraverso la Sua Passione, Morte e Resurrezione (Mc 10,32-34) i discepoli insistevano a non capire. Bartimeo è la risposta alla cecità dei discepoli che non vedono e quindi non possono interpretare il piano salvifico del Signore come l'unica strada verso la salvezza. Non vedono perché fanno molta fatica a lasciare le loro sicurezze (come ha fatto Bartimeo, "Egli gettato via il suo mantello... " Mc 10,50 ) e si ostinano a crearne di nuove con fantasie del tutto umane che, come scaglie sugli occhi, creano veri e propri disabili della fede, paralitici della salvezza!
Come difendersi da questo pericolo, ed evitare che anche noi, discepoli del terzo millennio, perseveriamo nell'idea di una salvezza tutta umana? Come predisporsi per lasciarci curare da tutte le nostre disabilità della fede?
A proposito possiamo cogliere nella lettura del profeta Geremia un indicazione: Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni, fate udire la vostra lode e dite: "Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d'Israele".(Ger 31,7). In poche parole ricordarci chi è che Colui che salva e non appropriarci della Sua iniziativa. Per quanto sbagliata possa essere l'idea che ci siamo fatti su Dio e su Gesù possiamo sempre riparare rinunciando a ciò che, testardamente, vogliamo realizzare senza di Lui, mettendo da parte le nostre false sicurezze e, con coraggio, lanciandoci dietro di Lui sulla strada che, da luogo incerto e pieno di pericoli, sappiamo essere diventata strada sicura di salvezza. Apriamo le nostre bocche non per tentare difese o giustificazioni o, peggio, proporre a Dio le nostre sciocchezze, apriamola per annunciare ciò che Dio ha fatto per noi e ciò che Dio farà di noi tramite la passione, morte e Resurrezione del suo Figlio!
Altra pillola medicamentosa, da aggiungere a quella sopra, sicuramente ce la offre San Paolo che nella sua lettera agli Ebrei che ci ricorda l'esistenza di una dignità sacerdotale che è servizio alla salvezza, tramite ed intercessione per tutti con Dio, dignità comune a tutti i battezzati. Essa è prima di tutto un dono, una scelta divina che su di noi è caduta per Grazia e che nessuno può attribuirsi da solo questo onore. A noi spetta riconoscere, umilmente, questo dono e lasciare che sia Dio a confermare la nostra dignità, sia Dio ad agire anche attraverso le nostre debolezze. La nostra dignità non è un compito stressante che passa attraverso le nostre erculee fatiche ma un elevazione divina che è iniziativa di Dio a cui noi dobbiamo rispondere anche solo con un cenno del capo, a Lui basterà. Certo, ciò porterà a noi impegno e fatica ma, umilmente, dobbiamo anche riconoscere che a farci sentire il peso e le fatiche saranno sempre i nostri handicap di fede e non l'Amore di Dio!