Omelia (01-11-2012)
don Alberto Brignoli
Santi nello Spirito delle Beatitudini

Quando ascoltiamo un brano come quello delle Beatitudini di Matteo, possiamo correre diversi rischi.
Un primo rischio è quello di interpretarle come un'aspirazione futura, come un destino al quale tendere in un mondo che non è certo l'attuale, e in attesa del quale siamo invitati a vivere le differenti situazioni di prova e sofferenza con pazienza e sopportazione, certi che verrà, un giorno, un mondo migliore nel quale ci potremo dire "beati" proprio a causa di queste situazioni.
Un altro rischio è quello opposto, ossia quello di strumentalizzare queste dichiarazioni di Gesù dando ad esse un carattere assertivo, quasi dogmatico, interpretando la "beatitudine" come una sorta di dichiarazione di bontà, di "attestato del Buon Cristiano", autorizzato a sentirsi in una situazione di superiorità morale rispetto a un mondo cattivo dal quale solo ci si possono attendere contrasti e persecuzioni.
A me non pare che lo spirito delle Beatitudini possa dirsi rappresentato in alcuno di questi due modelli, né in quello della nostalgia per un mondo migliore che verrà né in quello della bontà dichiarata del cristiano rispetto al mondo; modelli che sfociano entrambi in un'unica definizione comportamentale, ossia quella della sopportazione in vista di un bene futuro, magari visto sotto forma di "premio" per la costanza nelle difficoltà. Quasi a dire: "Dai, cristiano, vai avanti così che sei bravo! È il mondo a non capirti, e se non ti capisce è perché è cattivo! Ma tu sopporta, perché vedrai che presto godrai di una felicità senza fine che non è degna delle cose di questo mondo!".
E sfido chiunque a dire di non aver mai ascoltato una predicazione di questo stile o di non aver mai ricevuto esortazioni spirituali che andavano in questa direzione. Soffriamo ancora molto del "retaggio" di una tradizione spirituale basata sul dualismo "bene - male", "anima - carne", "terra - cielo", "mondo - Dio", che parte da molto lontano, addirittura previa al cristianesimo, ma che poi nel corso dei secoli si è accresciuta grazie anche alle continue avversità (e ai conseguenti atteggiamenti di difesa) che la religione cristiana ha dovuto affrontare.
Ma vediamo se riusciamo a ritornare allo spirito originario delle Beatitudini, per cercare di capire se bene si sposi con questa annuale ricorrenza di Tutti i Santi che ci ricorda il nostro impegno a vivere la dimensione quotidiana della santità.
Gesù, nel Vangelo di Matteo, pronunzia queste parole all'inizio del cosiddetto "Discorso della Montagna", che è da considerarsi una sorta di documento programmatico della sua attività di predicazione e di insegnamento; ossia, con il Discorso che inizia al capitolo 5 di Matteo, Gesù vuole offrire una sorta di "assaggio" di ciò che sarà la sua missione, incentrata sulla necessità di instaurare un genuino rapporto con Dio, basato non sulla sterile osservanza della Legge di Mosè, ma sulla relazione di figliolanza di ogni uomo con Dio Padre. E laddove c'è figliolanza con Dio, laddove si avverte la presenza di Dio nella nostra vita non come giudice severo, ma come padre premuroso, attento e tenero verso i suoi figli, è fuori discussione che i sentimenti che albergano nel cuore dei credenti siano di serenità, di pace, di giustizia basata sulla misericordia, una misericordia ricevuta e offerta; in altre parole, di felicità. Quello che Dio vuole da ognuno dei suoi figli che credono in lui è che si sentano bene e che siano felici; e la felicità - qui descritta come beatitudine - è la dimensione spirituale che più di ogni altra caratterizza la vita di coloro che hanno posto tutta la loro fiducia in Dio e che oggi, in un'unica celebrazione liturgica, veneriamo e invochiamo come "Santi".
Questa annuale celebrazione ci ricorda più di ogni altro momento dell'anno liturgico la vera dimensione della santità, che è, appunto, quella della beatitudine, della felicità, dell'entusiasmo che ci viene - lo dice la parola stessa - dallo "stare con Dio"; in ogni istante della nostra vita, nelle cose belle e in quelle meno belle, nei momenti di prosperità e nei momenti di crisi economica, nella salute e nell'infermità, nel successo e nelle delusioni, nell'amore ricevuto e donato e nella solitudine sofferta...saremo suoi discepoli e quindi beati, e quindi santi, nella misura in cui in ogni situazione della vita manterremo una dimensione di serenità e, possibilmente, anche di felicità esteriormente espressa.
Basta con quelle espressioni di santità (oserei dire di "presunta tale") basate su una rigidezza anche esteriore che non denota affatto rigorismo morale, bensì infelicità interiore e quindi, forse, lontananza da Dio! Basta con quei modelli di santità che fanno dell'osservanza dei precetti e delle norme la via privilegiata a Dio, il quale guarda più allo Spirito con cui si osservano le leggi che ai nostri integerrimi atteggiamenti di sudditanza alle norme! Basta soprattutto con quelle idee confuse e fuorvianti che ci mostrano la santità come qualcosa riservato esclusivamente a esponenti del clero, a fondatori e fondatrici di istituti e movimenti, a monaci e monache rinchiusi in luoghi che certamente trasudano fede e spiritualità ma che non possono avere la pretesa dell'esclusiva su Dio!
La grande quantità di santi e beati ufficialmente proclamati dalla Chiesa in questi ultimi tre decenni, senza contare tutti coloro che non avranno mai la possibilità di essere elevati alla gloria degli altari ma avranno comunque e sempre portato nel cuore la felicità di essere discepoli del Risorto, sta ad indicarci ulteriormente che la santità è qualcosa di possibile e di accessibile a tutti, in ogni stato di vita, in ogni condizione, con ogni tipo di inclinazione spirituale e qualunque sia il nostro carattere, e soprattutto nonostante i nostri limiti e le nostre incoerenze.
Purché siamo "beati"; purché siamo felici di stare con Dio, e lo esprimiamo anche visivamente con gesti concreti di carità, di mitezza, di giustizia, operando misericordia e pace intorno a noi.
Allora saremo chiamati, e lo saremo realmente, Figli di Dio. E perciò, Santi.