Omelia (04-11-2012) |
padre Gian Franco Scarpitta |
L'amore e lo "Schemà" " Ascolta Israele", in ebraico "Shemà Israel". Erano le parole con cui iniziava qualsiasi preghiera degli Israeliti radunati nel tempio o nella sinagoga nella memoria di tutto quello che Dio aveva fatto per il popolo durante la sua fuga dall'Egitto e la sua peregrinazione e di come, alle porte della terra promessa Egli si fosse rivolto con parole di esortazione alla fedeltà continua ai suoi comandamenti. Così infatti si esprime il libro del Deuteronomio, di cui la liturgia odierna ci offre uno spezzone: "Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica (le sue leggi e i suoi comandamenti), perché tu sia felice e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto. L'osservanza dei comandamenti non si richiede in ragione di una coazione o di un imperativo categorico, ma è legata alla consapevolezza che Dio ha più volte favorito il popolo, lo ha sostenuto e condotto. La memoria dei benefici ricevuti da Dio induce il popolo all'osservanza dei suoi precetti e a riscontrare in essi un canale di comunione con lui. Amare Dio e osservare i suoi comandamenti sono coefficienti concomitanti e complementari. Ma qual è il culmine di tutta la legge divina se non l'amore per il prossimo? Nella Bibbia l'amore per Dio corrisponde inequivocabilmente all'amore per gli altri e l'esercizio di questo è garanzia della certezza del primo. In parole povere, chi dimostra amore verso il prossimo palesa di amare Dio senza ombra di dubbio. L'unico problema che solleva la Scrittura è dato dal concetto di "prossimo". Nell'Antico Testamento un simile appellativo andava riferito al solo vicino, al conterraneo, a chi apparteneva alla sola cerchia del popolo d'Israele, di conseguenza il comandamento suonava: "Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico". Gesù, nella ben nota parabola del buon Samaritano, ricca di particolari interessanti, ci illustra che invece il prossimo assume un significato molto più vasto, che si estende allo conosciuto e raggiunge anche l'avversario, il nemico. Il prossimo, oggetto del nostro amore, è nel Nuovo Testamento dunque anche colui che comunemente consideriamo persona deprezzabile e ignobile, lo sconsiderato e il perverso, insomma il nostro nemico. Quando lo scriba avvicina Gesù, senza cattiva intenzione, per domandargli quale sia il Comandamento più grande, il dialogo si risolve con un'ammirazione da parte di Gesù nei confronti di questo sapiente studioso della Legge di Mosè e delle Scritture, perché questi dimostra con il suo ragionamento di aver assimilato la pienezza della Legge appunto nell'amore non più ristretto e circoscritto, ma universalmente inteso: è proprio vero che amare Dio è il più grande comandamento che la legge di prescrive. Inoltre, l'interlocutore mostra di aver preso coscienza dell'indissolubilità dei due comandamenti, che formano un tutt'uno soprattutto nella loro prassi: l'amore di Dio è indiscutibilmente indispensabile per essere a Lui graditi, ma senza amore sincero e disinteressato al prossimo, siffatto amore divino non sussiste. C'è anche un termine di paragone che spiega nei dettagli il duplice atteggiamento amoroso in senso verticale e in senso orizzontale: l'amore verso se stessi. Nella misura in cui siamo capaci di amare radicalmente noi stessi, saremo in grado di recare il vero amore agli altri, che lesina da filantropia o esibizionismo, ma che ha la sua scaturigine dal fatto che Dio stesso ci ha amati per primo. Lo scriba, che in questo colloquio con Gesù si mostra molto superiore ai membri della sua cerchia sempre intenti a sfidare il Signore con ampollose argomentazioni, dimostra anche una forte maturità di pensiero e un avvenuto processo di formazione interiore che lo porta a concepire (Così come è opportuno) l'amore per Dio e per gli altri al di sopra del formalismo farisaico delle prescrizioni e delle leggi, degli olocausti e dei sacrifici che poco propiziano Dio quando non siano corredati di comunione amorosa con Lui ("Amore voglio, non sacrifici. Non offerte ma comunione con me" Osea 6, 5 - 6). Così infatti si esprime il nostro dottore scriba: "Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all'infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l'intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». Cuore, mente, e forza sono le prerogative con cui si caratterizza la totalità del'uomo, il suo essere soggettivo e la sua dimensione sociale, per cui l'uomo si orienta verso Dio con tutto se stesso senza nulla omettere della propria identità. Ma proprio questa sua disposizione verso Dio lo conduce ad amare se stesso perché la propria auto donazione non sia fittizia o illusoria e conseguentemente l'amore verso se stesso lo conduce a donarsi al prossimo. Cosa si dà a Dio e agli altri quando si ama? Esclusivamente se stessi e di conseguenza essere capaci di amarci equivale ad essere in grado di donarci. Come scrive Mons. Andrea Gemma in un suo commento, presumibilmente siamo soliti dare per scontato che siamo formati su questi argomenti e ci sembrano non di rado superficiali, in necessari e superati, ma questo fa si che il nostro cristianesimo si trasformi in una mera abitudine!! In realtà occorrerebbe sempre ricordare a noi stessi la necessità dell'amore come unica possibilità di realizzazione di noi stessi in relazione agli altri non senza il previo rapporto di comunione con Dio. La prerogativa dell'amore è davvero esaltante, ma fin quando la si concepisce come teoria sarà per noi solamente una chimera: è indispensabile viverla nella prassi per poterci rendere conto della sua valenza e della sua incidenza nel nostro vissuto quotidiano. Amare radicalmente gli altri come noi stessi vuol dire in fin dei conti preferire per il nostro prossimo gli stessi vantaggi e gli stessi benefici che noi perseguiamo per noi stessi, per ciò stesso accogliere gli altri come noi stessi vorremmo essere accolti, usare per gli altri la stessa premura e la stessa sollecitudine che ci aspetteremmo di ricevere, riservare ad altri lo stesso trattamento che vorremmo ricevere noi stessi e per ciò stesso l'amore per il prossimo comporta consapevolezza di dover noi amare noi stessi con intensità e nella verità. Ma tutto questo resta nell'ordine della mera teoria e dell'illusione quando non si premetta la consapevolezza di essere stati resi oggetto noi stessi dell'amore di Dio e di essere stati raggiunti dalla gratuità della sua misericordia. La consapevolezza che Dio ci ha amati per primo immeritatamente, la professione di fede in un Dio che è comunione e donazione illimitata, l'affidamento di noi stessi al Mistero dell'Amore con cui egli raggiunge l'uomo con i suoi innumerevoli benefici sono le condizioni indispensabili per la vita secondo il grande comandamento dello Schemà. L'ascolto della sua Parola, come lo è stato per Israele, sarà fruttuoso anche per noi quando ci disponiamo ad accogliere l'Amore che ci ha raggiunti, redenti e trasformati, rendendoci capaci di essere apportatori dello stesso amore. E' piacevole consegnare ad altri lo stesso dono che ci era stato regalato in precedenza e che ci aveva resi entusiasti: si avverte la soddisfazione di rallegrare coloro ai quali lo stiamo consegnando. Il dono più grande di cui siamo dispensatori è l'amore che Dio ci ha dato infinitamente in Gesù Cristo e per il quale noi stessi abbiamo gioito. |