Omelia (11-11-2012) |
padre Gian Franco Scarpitta |
L'amore non è sinonimo di superficialità Il mio insegnante di Filosofia al Liceo Classico, prendendo a volte l'argomento affermava che "non è importante dare, ma saper dare", individuando le reali necessità oggettive delle persone alle quali si fa del bene, ponderando attentamente quelle che sono le nostre possibilità in relazione a quelle degli altri e tracciando dovuti raffronti fra quello che di fatto diamo (e a chi lodiamo) e quello che dovremmo dare (e chi darlo). E' significativo che un docente di mentalità laica abbia questa nobile concezione del "dare"che in fin dei conti non è distante da quella insegnata dal Vangelo e comunque in linea di pertinenza con la razionalità e il buon senso. Un conto infatti è donare una parte delle nostre risorse compromettendo il nostro patrimonio per il bene dei bisognosi (il che è nobilissimo), altro è dare pochi soldi quando si custodiscono possenti forzieri (che non richiede alcuna fatica); un conto è donare ai poveri con i soldi che appartengono ad altri, altro è aiutare il prossimo sacrificando per intero le nostre risorse. Una cosa è fare l'elemosina una volta assicurataci la "botte piena e la moglie ubriaca", altro è prodigarsi per gli altri compromettendo la propria sicurezza economica. Un conto è aiutare chi già dispone di un sostanzioso stipendio, altro è elargire a chi vive di stenti con la propria pensione o senza avere reddito alcuno. Un conto è dare soldi a chi si trova in difficoltà dopo aver scialacquato, secondo abitudine, in bagordi e gozzoviglie, altro è darli a chi si trova nell'indigenza per affrontato urgenti spese. Premesso che noi non smentiremo mai che quello dell'amore è il comandamento supremo della legge divina e che esso è sempre improcrastinabile, se possiamo permetterci di usare una frase del nostro pontefice, la carità va fatta nella verità e comunque l'esercizio dell'amore al prossimo non deve esulare dal raziocinio e dal buon senso. La carità inequivocabilmente reale e non fittizia è per esempio quella che viene descritta dalla liturgia della Parola di oggi, nella quale, sia a proposito della Prima Lettura relativa alla vicenda di Elia, sia in merito al Vangelo di Marco si descrive la carità esercitata da parte di una vedova. Quando nella Bibbia si parla di donne rimaste senza marito (con la sola eccezione di Giuditta) si deve sempre pensare a dei soggetti meschini e abbandonati, trascurati dalla società: se una donna era considerata nell'Antico Testamento quasi come un oggetto di proprietà del marito, una vedova, appunto perché priva del coniuge, non poteva che essere considerata reietta e abbandonata perché non in grado di essere sostenuta e difesa. Eppure proprio una vedova, nel tesoro del tempio di Gesrusalemme deposita non il superfluo o le rimanenze di una ricca spesa, ma semplicemente tutto quello di cui dispone. Due monete, sì, una cifra irrilevante dal punto di vista erariale, una somma che solitamente viene ritenuta ridicola e insignificante, che non comporta certo l'accrescimento del tesoro del tempio, ma che Gesù interpreta alla stregua di un capitale possente e incalcolabile. Perché tale è infatti nelle intenzioni di questa povera donna: Infatti "così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere" I benestanti che hanno gettato nel tesoro i loro piccoli contributi non avevano fatto nulla di straordinario o di meritorio: non avevano neppure scalfito il loro patrimonio personale concedendo pochi spiccioli alla casa e non rischiavano certo di impoverirsi con quelle meschine elargizioni. Insomma il loro sforzo non era stato affatto esaltante, perché è fin troppo facile dare in elemosina pochi spiccioli mentre si hanno i depositi personali straripanti e pertanto non vi sono affatto meriti in questo tipo di elargizioni. Inoltre, come avviene anche ai nostri giorni financo nelle nostre parrocchie, le persone possidenti sostenevano volentieri un'istituzione religiosa che si guardava bene dal rimproverare le loro ricchezze e dal proferire moniti morali nei loro confronti! Come se non bastasse, come affermano alcuni studiosi, chi gettava un'offerta nel tesoro, proclamava ad alta voce l'ammontare della somma donata in modo da potersi auto esaltare. La generosità di questa misera donna è invece disarmante e non può che meritarle appropriate ricompense da parte di Dio, poiché ella, nel depositare quei due denari non ha fatto calcolo alcuno quanto alla possibilità di altre risorse per sopravvivere, a quanto ha lasciato o a quanto ha perduto, ma semplicemente ha versato quanto aveva per vivere. Un atto di carità unito ad un atto di fede estrema, considerando il luogo nel quale si realizza questa raccolta: il tempio. Vale a dire il luogo dell'incontro con Dio al quale nella sua semplicità questa povera vedova dona tutta se stessa nel concedere le sue pochissime eppure laute risorse materiali. Anche a proposito di Elia si parla di una vedova che dona tutta se stessa a colui che viene a trovarla. Il suo atteggiamento di fronte ad un uomo sconosciuto che poi riscontrerà essere l'uomo di Dio mi ricorda anche l'episodio della canzone "Il pescatore" di Fabrizio De Andrè: "Gli occhi dischiuse il vecchio al giorno, non si guardò neppure intorno, ma spezzò il vino e verso il pane per chi diceva ‘ho sete, ho fame'". Gli si mostra disponibile immediatamente anche eseguendo il consiglio dello sconosciuto che le indica come approntare i prepartivi del pasto di ristoro. Anche in questo caso la vedova, che per tale ragione meriterà la risurrezione del figlioletto defunto, si prodiga volentieri senza calcoli di spesa o tentennamenti sulle proprie possibilità, donando di se stessa tutto quanto e in ciò stesso concedendosi risolutamente a Dio che presenzia nel profeta Elia. Come dice Paolo "ciascuno dia quanto ha deciso nel suo cuore, perché Dio ama chi dona con gioia" ma chi adopera letizia nel dare certamente è capace di dare e rende soddisfatto Dio, il suo prossimo e... se stesso. La vera carità è disinteressata e prodiga e soprattutto scevra e libera da ogni presunzione, falso orgoglio e ipocrisia, caratteristiche distruttive e desolanti che Gesù sta condannando proprio a proposito di questo episodio in cui l'amore fa la parte del leone: chi dona con gioia rifugge la vanagloria e il clamore rifiutando l'altisonanza delle proprie acclamazioni ma mirando solamente al bene del suo prossimo senza riserve e senza retorica alcuna. Se da una parte non si può smentire che esistano i succitati presuntuosi che pretendono di mettere a posto la propria coscienza donando semplicemente il superfluo e l'innecessario, dall'altra non possiamo non considerare la grande moltitudine di persone disposte a sacrificare se stesse a vantaggio del prossimo e dei bisognosi, aiutando perfino coloro che presumibilmente non faranno uso lecito di quanto esse stanno donando, come pure quanti mettono mano al portafoglio o alla borsetta ogni qual volta vi siano iniziative di sostegno economico alle missioni o alle attività caritative senza calcoli né reticenze, mentre altri lesinano perfino nei centesimi. E' fuor di dubbio che questa magnifica gente non mancherà di ottenere i giusti favori da parre del Dio che sostiene i poveri e intanto ci ragguaglia già adesso di quanto afferma il libro dei Proverbi: "Chi dona al povero presta a Dio, che gli darà il contraccambio della buona opera." (Pr 19, 17). |