Omelia (15-02-2004) |
mons. Vincenzo Paglia |
Commento Luca 6,17.20-26 Questa domenica possiamo chiamarla la «domenica delle beatitudini o della felicità». Il vangelo di Luca riporta il noto discorso delle beatitudini (6,17.20-26) dopo che Gesù sul monte aveva scelto gli apostoli, uno per uno. La situazione nella quale egli si trovava era delicata: si stava determinando l'organizzazione di una nuova «comunità» con la scelta degli uomini e la chiarificazione dell'indirizzo. Gesù, dopo aver passato la notte in preghiera, certamente ha parlato con i discepoli della missione che stava per affidare loro, stabilendo probabilmente cosa avrebbero dovuto dire e come avrebbero dovuto comportarsi. Il tono delle parole, pur non perdendo la familiarità, aveva senza dubbio i tratti dei momenti importanti. Sceso dal monte, Gesù si trova di fronte a una numerosissima folla. Tutti volevano ascoltarlo, toccarlo, sentirlo vicino. L'evangelista nota, con un certo stupore, che anche persone «tormentate dagli spiriti immondi» erano accorse per essere liberate. La folla era estremamente composita, anche contraddittoria, ma in una cosa erano tutti concordi: aspettavano una vita diversa, nuova, migliore di quella che conducevano, e speravano di poterla trovare attraverso quel giovane profeta venuto da Nazaret: «Da lui usciva una forza che sanava tutti»(v. 19). Gesù, vedendo quella folla, non rimase insensibile e prese occasione per inaugurare una nuova fase della sua missione pronunciando uno dei discorsi più sconvolgenti, quello appunto delle beatitudini. In Luca, a differenza di Matteo, è pronunciato in pianura, potremmo dire a livello della gente, di quella gente stanca, sfinita, malata, disperata. Le parole che Gesù pronuncia non sono astratte, e non hanno il tono del manifesto di una nuova ideologia, neppure sono un'esortazione rivolta a una èlite di eroi. Le sue parole erano dirette a quei poveri, a quei malati, a quella gente che piangeva, a coloro che erano insultati e rifiutati, a chi mendicava una parola per sé, a chi cercava di toccare con le mani almeno il lembo del mantello di quel profeta. Ma la beatitudine non nasceva dalla condizione di miseria o di malattia in cui costoro versavano: sarebbe stato crudele dirlo. La beatitudine consisteva nel fatto che Dio aveva scelto di occuparsi di loro, prima che di altri. Insomma con Gesù giungeva il tempo in cui Dio dava il pane a chi aveva fame, trasformava in gioia il pianto e in allegrezza l'odio. Il regno è dei poveri, sin da ora, perché Dio sta con loro. Il vangelo non si lascia andare a un facile e superficiale moralismo circa i «poveri buoni», quasi che questa loro condizione disagevole li renda moralmente migliori degli altri. No; i poveri sono come tutti noi, buoni e cattivi. La beatitudine di avere Dio vicino nasce dall'oggettiva condizione di povertà, che intenerisce il cuore del Signore. Così è per i malati e i deboli, per i prigionieri e i carcerati. Essi, pur nel dramma e nella sofferenza, non debbono essere più disperati: Dio li ha scelti come suoi amici e su di loro riversa la sua misericordia. Del resto sarebbe davvero disumano se così non fosse. Che cuore avrebbe quella madre che distribuisse il suo tempo in maniera uguale con un figlio malato grave e con l'altro che sta bene? Se proprio si vuole trovare nei poveri un aspetto soggettivo che facilita la vicinanza di Dio, questo lo si può individuare nel desiderio maggiore che essi hanno di qualcuno che stia loro vicino. Chi è ricco e sazio, chi riceve solo lodi, difficilmente attende un cambiamento radicale della propria vita, difficilmente sente il proprio limite e la radicale debolezza. E' facile che pensi di non aver bisogno di nessuno. Lo sappiamo bene per esperienza personale. Il vangelo, perciò, con un procedimento a contrasto, aggiunge ai quattro «beati voi», altri quattro «guai a voi»: guai a voi ricchi, guai a voi sazi, guai a voi che ora ridete, guai a voi quando tutti vi diranno bene. «Guai», perché in questi momenti è più facile sentirsi autosufficienti e per nulla bisognosi, neppure di Dio. Il ricco, che è in ognuno di noi, rischia di essere talmente ripiegato su di sé da restarne imprigionato. «Guai a noi», quando lasciamo prevalere il ricco che è in noi. Gesù non vuole esaltare la povertà in se stessa e neppure condannare la ricchezza in se stessa. La salvezza, non dipende dal proprio stato, ma nel sentirsi, o meglio nell'essere, figlio di Dio. Se noi ricchi ci avviciniamo a Dio, i poveri saranno beati, perché assieme al Signore avranno vicini anche noi come loro fratelli. |